È davvero solo una questione di denaro?

Chi di noi non ha preso parte, esprimendo il proprio punto di vista e le proprie convinzioni, alla querelle montata in questi giorni per via dell’affanno che incontrano gli imprenditori del food, chef stellati divenuti anche star del video e dei social, nel trovare camerieri, baristi, cuochi, pizzaioli, insomma nel trovare personale?

Chi di noi non ha avuto dubbi nello schierarsi dalla parte degli uni, perché pensiamo che le ragioni risalgono al modo con cui abbiamo allevato una generazione di piccoli principi venuti su a capricci e paghette e regali immeritati, che adesso, quando arriva il momento di darsi da fare, si mostra aliena alla fatica per un salario. O nel prendere la parte degli altri, dei figli appunto, perché siamo felici nel constatare di non averli allevati per farne polli da batteria, e come tali pretendono che nel “salario” risuonino in primo luogo il tintinnio delle monete, ma anche il riverbero delle parole “equo” e “giusto”.

 

Oltre le polemiche: è cambiata la mentalità

Ma, se vogliamo superare questa dinamica qualunquista del pro e del contro, del favorevole e del contrario, del sostenitore e del detrattore, che, diciamocelo con coraggio, attiene più alle chiacchiere da ombrellone che cadono nel vuoto al classico “non c’è più religione signora mia”, dobbiamo iniziare a porci qualche domanda utile. Dobbiamo chiederci cosa accade e perché accade.

In una recente intervista al Corriere della Sera, un noto e apprezzato chef che, diversamente dai colleghi, ama invece definirsi oste e cuoco, trasportando così nel rutilante oggi dello showbiz il valore antico di quell’arte che attiene al “fare”, ha toccato uno dei temi centrali.

“Le prime domande che mi sento fare ai colloqui sono ‘posso avere il part time?’ e ‘posso non lavorare la sera?’ – ha riferito al quotidiano – Ma io non penso che chi mi pone queste domande sia sfaticato, è che i ragazzi hanno proprio cambiato mentalità: fino a prima del Covid per loro era importante trovare un impiego, adesso è più importante avere tempo”.

Ecco, io ritengo che la parola “tempo” sia una di quelle che risuonano all’interno di “salario” perché attiene alla dimensione di ciò che è “giusto” e “equo”.

 

L’ondata di dimissioni e le nuove priorità per i lavoratori

Come abbiamo imparato a capire già dai mesi scorsi, quello che nel mercato anglosassone è stato chiamato il fenomeno della “Great Resignation”, cioè la forte ma oramai non più sorprendente valanga di dimissioni da parte dei dipendenti che vogliono andarsene per guadagnare di più, ma soprattutto per inseguire i propri sogni di vita e un ideale di benessere psicofisico mutato e sentito sempre più necessario, è stata un’ondata che non si è fermata a quella sola comunità. Ha invece esondato ovunque, irrigando il terreno del cambiamento in altri mercati e a tutti i livelli professionali.

In Italia, per esempio, ci dice il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, solo tra aprile e giugno dell’anno scorso si è dimesso mezzo milione di persone. Negli Usa, lo scorso agosto, i dimissionari erano oltre 4,5 milioni. Secondo uno studio McKinsey il 40% dei lavoratori mondiali intende lasciare l’impiego attuale nei prossimi mesi.

Ma vi è di più, e questa è la novità che mi permette di affermare che non è solo una questione di denaro: secondo un approfondito studio di Deloitte, quasi il 70% dei cosiddetti C-suite, la più alta linea di responsabilità manageriale, delle aziende Usa, UK, Canada e Australia, sta seriamente considerando l’idea di lasciare la propria posizione per cercare un maggiore “well-being”.

Un insospettabile 81% è arrivato a dichiarare che, in questo momento, “ritrovare il proprio equilibrio” è più importante che “cercare ulteriori scatti di carriera”. Perché? Per il 76% degli alti dirigenti interpellati il motivo dipende dall’esperienza della pandemia, che ha sortito l’effetto di peggiorare la qualità di vita e lo stato di salute.  Il 41% si è detto stressato, il 36% esaurito e il 35% si sente sopraffatto.

Ovviamente lo stesso tipo di indagine è stato fatto tra i dipendenti, e questi ultimi, rispetto ai manager di prima linea, pur accusando le stesse problematiche sono molto più contenuti nelle intenzioni di mollare il lavoro, ci pensa solo il 57%.

 

I dirigenti sovrastimano il benessere dei propri dipendenti

È fuor di dubbio quindi che il tema del benessere personale sia in posizione apicale nell’agenda di tutti in questo momento, che si sia impiegati o C-level, ma il dato sorprendente che emerge da questa indagine è che tra i C-level, nonostante stiano lottando come tutti per il proprio benessere, più di 8 su 10 ritengono che il proprio personale invece stia prosperando in tutti gli aspetti del proprio benessere. Da qui a protestare perché non si trova personale, il passo è breve. Dire “ai miei tempi si lavorava gratis pur di imparare il lavoro” mostra un abisso incolmabile.

Inoltre, se i tempi e dunque le priorità sono cambiati per le élite manageriali, inevitabilmente va riconosciuto che siano cambiati per tutto il resto della forza lavoro, siano essi gli impiegati di basso e medio livello che nel mondo del lavoro ci sono da anni, sia i giovani che vi si affacciano soltanto ora. Credo che una parte significativa delle furenti polemiche abbia origine in un malinteso culturale di fondo: nell’applicare vecchi schemi interpretativi a una realtà mutata a velocità esponenziale dalla pandemia.