Industry 5.0, ovvero l’uomo (finalmente!) al centro

Per chi come noi insiste da anni sulla necessità di riportare l’essere umano al centro del sistema economico e della dialettica tra uomo e macchina, l’avvento dell’Industria 5.0 offre numerosi spunti di riflessione e, perché no, anche la piacevole sensazione di aver intravisto e creduto, nel confuso e turbolento marasma contemporaneo, in un percorso futuribile e adatto alle sfide della nostra epoca.

 

Cos’è l’Industria 5.0

Il punto chiave per comprendere Industria 5.0 è che si tratta di una filosofia o di un modello d’impresa caratterizzato dalla Human Centricity, l’uomo al centro, ossia uno dei tre perni di quel concetto che divulghiamo appassionatamente da tempo, la Humanovability. L’Industria 5.0 è una Cooperative Industry, laddove la cooperazione da realizzarsi, dunque da progettare accuratamente, è quella tra uomo e macchina. Un equilibrio che porta innumerevoli vantaggi, primo tra tutti la capacità di realizzare prodotti specifici per le esigenze non soltanto dei consumatori, ma anche dell’ambiente e di chi, essere umano appunto, lavora alla loro realizzazione.

L’Unione Europea, nel suo paper “Industry 5.0: verso una industria europea sostenibile, human centric e resiliente” sostiene che essa sarà in grado di “portare benefici all’industria, ai lavoratori e alla società”. Non un passaggio da poco, quello che ha portato alla definizione di un approccio dunque più olistico, più attento a tutti gli attori del contemporaneo.

E’ il vero elemento di discontinuità rispetto all’Industria 4.0, fortemente incentrata – e per molti versi anche schiacciata – sull’innovazione forsennata in settori quali l’AI e la robotica. Se la 4.0 ha impresso l’accelerata tecnologica, lo strappo storico che caratterizza ogni fase fortemente innovativa, la 5.0 ha il ruolo di portare un riequilibrio di cui, oggi lo vediamo con più chiarezza anche soltanto rispetto a tre o quattro anni fa, la società e gli individui hanno un bisogno profondo e io credo anche non più rinviabile.

In questo modello evolutivo cambiano in parte, finalmente, le priorità. Laddove le piattaforme produttive di nuova generazione hanno portato vantaggi in termini di efficienza e profitto, è ora necessario armonizzarle con i diritti fondamentale dei lavoratori. Laddove efficienza e profitto hanno rafforzato e reso più resilienti alcuni modelli di business, e in alcuni casi anche salvato realtà produttive dall’essere annichilite dai cambiamenti in atto, il focus è valutarne l’impatto sulla società nel suo insieme, in termini di sostenibilità, di efficienza energetica, di conseguenze sociali e ambientali sui territori o sulle catene e filiere che producono valore.

 

L’Industria 5.0 intercetta la reale necessità di essere sostenibili

Suona tutto molto “alto”, molto astratto da un certo punto di vista, ma non è affatto così. Un’AI o un robot possono spazzare via migliaia di lavori e generarne molti altri in un tempo relativamente breve, a seconda della visione (o dell’assenza di essa) che ne guida l’implementazione come nuovo standard produttivo. Stiamo parlando di redditi, di famiglie, di uomini e donne, progetti e ambizioni che sono influenzati dai modelli produttivi in essere nelle società.

Tutti noi sperimentiamo ormai quella sensazione di vuoto e di vacuità che deriva dall’essere ossessivamente esposti a mantra, a termini di moda e abusati che hanno la pretesa di sintetizzare processi infinitamente articolati e complessi in flash lessicali comprensibili senza sforzi particolari. “Sostenibilità” è il termine del periodo, talmente infilato a forza in ogni registro comunicativo che nella percezione spicciola e quotidiana ha ormai perso quasi del tutto il suo valore contenutistico.

Industria 5.0 non è soltanto una tassonomia, un’etichetta: è la sintesi di evoluzione di un modello dal quale dipende il futuro di centinaia di milioni di esseri umani, e che dal concetto di “sostenibilità” si propone di attingere in maniera proattiva, declinandone i presupposti in migliaia di prassi lavorative, produttive, industriali. Dentro alla “sostenibilità” c’è un grande sogno: quello di terraformare l’ambiente naturale e umano secondo una logica nuova, più equilibrata rispetto al passato. Questo perché stiamo faticosamente capendo che senza adeguare il concetto di profitto, alla lunga siamo tutti nei guai, chi prima e chi poi.

Il “vecchio” profitto vive di short terms, di visioni a breve o brevissima durata, dell’incassare tutto e subito senza troppo preoccuparsi delle zolle di terreno riarse che ci si lascia alle spalle. Quel profitto in cui tanti di noi credono da tempo – personalmente l’ho sempre chiamato Giusto Profitto – vive in un’atra dimensione, sul medio e lungo termine, abbracciando gli effetti di ogni iniziativa umana su una scala più ampia rispetto al mero tornaconto personale, ossia a livello sociale e ambientale. Ecco perché il fatto che Industria 5.0 sia centrata sull’essere umano è un passaggio cruciale, senza il quale avremo senza dubbio molte meno chances di superare le tante crisi che segnano questo periodo.

 

Un esempio del nuovo corso: il progetto Sure 5.0

Entro il perimetro di questo modello ricade il progetto Sure5.0 – “Supporting the smes SUstainaibility and REsilience transition towards industry 5.0 in the mobility, transport & automotive, aerospace and electronics European Ecosystems” – finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma Horizon Programme Europe. Un nome un programma, nel senso che già la dicitura evidenzia i tre ecosistemi industriali strategici nel mirino del progetto, ossia mobilità, aerospazio e elettronica.

11 partner da 8 Paesi europei hanno unito le forze per supportare circa un migliaio di PMI, dunque piccole e media imprese, attraverso finanziamenti ai loro progetti di Industria 5.0, oltre a occasioni di networking, formazione e altri servizi su misura. Per una mobilitazione complessiva di risorse che si aggira sui 5 milioni di euro. L’idea di fondo è che lo sviluppo dell’Industria 5.0 passi attraverso la creazione di un ecosistema, e che esso non possa essere generato da zero. Serve un grande sforzo di visione per riconvertire alcuni presupposti produttivi delle forze e dei player già presenti sulla scacchiera. E se grandi aziende si fanno promotrici di questa visione in termini concreti, supportando la transizione di aziende più piccole del medesimo settore, dunque potenziali partner o fornitori, allora la diffusione dell’ecosistema 5.0 avverrà più rapidamente e in maniera più centrata rispetto alle effettive necessità degli attori principali.

Si potrebbe obiettare, ed è anzi giusto farlo a mio avviso, che le cifre siano drasticamente inferiori rispetto alle effettive necessità di cambiamento. Ma tracciare una direzione è un processo faticoso e dobbiamo evitare a tutti i costi il trappolone: pensare che esistano singoli, mastodontici interventi cambiamondo e risolutivi. Dobbiamo invece imparare dalle messe a terra più virtuose, portarle a esempio, replicarle in ambiti diversi e su scala e livelli qualitativi sempre maggiori.

E’ di una profonda evoluzione che abbiamo un disperato bisogno. E l’evoluzione, per sua stessa natura, non può accadere dall’oggi al domani.