Perché ci interessa la classifica della felicità

A cosa serve una classifica su quanto siano diversamente felici i vari Paesi del mondo? Mi faccio questa domanda volutamente il 20 marzo, decima Giornata Mondiale della Felicità istituita dalle Nazioni Unite, oltre che assai opportunamente data di pubblicazione della decima edizione del World Happiness Report. La classifica “ufficiale” della felicità, appunto, frutto di accurate ricerche demoscopiche condotte in tutto il mondo.

 

Oltre il “solito” podio Nordeuropeo

A mio avviso il valore profondo di questo tipo di classifica non risiede nell’aspetto più ovvio ed evidente, quello di gerarchizzazione dei posti migliori e di quelli peggiori in cui vivere. A questo tipo di conclusioni, possiamo e anzi dobbiamo arrivare approfondendo come individui tantissimi aspetti cruciali della vita contemporanea, incrociandoli con i nostri caratteri, ciò che crediamo e a cui aspiriamo, il modo in cui ci informiamo e intendiamo la vita.

Certo, esistono dai dati del tutto oggettivi – a quale giovane donna libera e contemporanea, appassionata agli studi, impegnata a costruirsi una carriera e seguire le proprie inclinazioni, piacerebbe vivere nel contesto sociale e culturale dell’Afghanistan contemporaneo dei Talebani, non per niente fanalino di coda del report? Tuttavia, le variabili sono tantissime e il senso non è certo prendere per oro colato gli ormai consueti podi composti dai Paesi del Nord Europa, quest’anno il terzetto Finlandia, Danimarca e Islanda.

 

Promuovere uno shift culturale

Ciò a cui serve davvero un World Happiness Report è invece promuovere globalmente uno shift culturale: far passare in profondità il messaggio che il criterio chiave di valutare il successo delle nostre imprese umane sia la felicità che come società siamo in grado, se non proprio di creare direttamente, quantomeno di far nascere, attirare o far crescere negli abitanti di una nazione.

Non soltanto o in larga parte gli elementi materiali dunque, che pure sono espressione dei diritti fondamentali, o numeri univoci, che pure ispirano e informano giudizi più affidabili. Bensì quell’alchimia complessa che unisce le persone e che rappresenta l’elemento basilare di ogni società umana.

Un punto di vista che si riverbera anche su come negli anni si siano evoluti i sei criteri di valutazione del WHR. Nel report 2023, un terzo dei criteri attiene infatti a una sfera che potremmo definire più intima, esistenziale, non catalogabile con dati inconfutabili.

Oltre all’aspettativa di vita in buona salute, il Pil pro capite, il sostegno sociale e un basso livello di corruzione, troviamo infatti anche la generosità della comunità in cui le persone si prendono l’un dell’altro e la libertà di prendere decisioni chiave nella propria vita. Un progetto di ricerca che denota la ricerca di un equilibrio tra ciò che è incontestabilmente misurabile e ciò che non lo è. E che a mio avviso, porta valore al report di quest’anno, specie in alcune sua parti che trovo affascinanti.

 

Altruismo e anima sociale

La pandemia ha naturalmente giocato un ruolo rilevante. A livello globale, dal 2020 si registra una costante salita della benevolenza e di azioni prosociali, ossia di quelle azioni che beneficiano le altre persone e la società nel suo insieme, a un livello almeno un quarto superiore rispetto all’era pre pandemica.

I nuovi dati del report 2023, fotografia dunque all’anno precedente, mostrano come connessioni sociali positive e supporto verso l’altro siano il doppio più diffusi rispetto alla condizione di solitudine in 7 Paesi chiave, distribuiti su sei diverse regioni del mondo. La relazione con l’altro ha dunque conquistato una nuova, rinnovata rilevanza, influenzando i valori medi di soddisfazione personale, resilienza e di capacità di rivalutare alcuni aspetti della vita durante i periodi di crisi e difficoltà.

Aiutare degli sconosciuti, sostenere economicamente delle cause, donare il sangue e fare volontariato sono gli atteggiamenti altruistici più comuni delineati nel WHR. E secondo lo studio, non soltanto c’è una correlazione diretta tra la felicità individuale e l’adozione di questi comportamenti altruistici, ma questo è vero sia nei raffronti tra diversi Paesi e sia in quelli tra diversi individui.

Sempre di più scopriamo dunque, come istituzioni, Paesi o individui, un potente circolo virtuoso all’opera. Non soltanto gli atti altruistici rendono più felici chi li propone e i destinatari di queste azioni. Ma sulla base di alcune evidenze sperimentali, il report 2023 teorizza una forte correlazione tra l’essere beneficiario di azioni altruiste e la probabilità, una volta sperimentati i benefici di quelle azioni, di diventare in un secondo momento a propria volta un fautore di quel cambiamento positivo, mettendosi così in gioco per aiutare gli altri. Il legame tra felicità e altruismo si rivela allora essere una impattante, luminosa costante trasversale.