Esiste davvero una ricetta della felicità? Per alcuni è infantile anche soltanto ipotizzarlo, per altri esistono risposte relativamente semplici a domande così complesse. E’ il caso di quella filosofia di vita nata alla fine dello scorso decennio che vede nell’autogratificazione la via maestra e il cui motto è: «Reward and indulge». Ricompensati e viziati. Un mantra che rappresenterebbe, in estrema sintesi, la strategia da seguire per sopravvivere a questa epoca sempre più ansiosa e connessa. I suoi comandamenti sono noti da tempo: per essere felici, è necessario ritagliarsi del tempo per sé, prendendosi anche una pausa, senza per questo avere sensi di colpa, ed estraniarsi da ciò che ci circonda. Un insegnamento vecchio come il mondo, che però a quanto pare abbiamo dimenticato o trascurato.
Semplice, ma non facile
Se staccare e prendersi dei momenti privati dedicati alla gratificazione possono portare enormi benefici al nostro flusso interiori e alla salute psicofisica, è però condizione essenziale che questi momenti siano veramente goduti a pieno, non compromessi dal retropensiero di ciò che stiamo trascurando e da ciò che dovremo fare in seguito.
Talvolta le affermazioni di buon senso sono anche confermate da evidenze fattuali e teorie scientifiche. Nel suo libro “In Pausa”, Andrew Smart afferma che mentre la nostra psiche è attrezzata per sostenere carichi intensi di lavoro, il cervello per poter funzionare normalmente ha bisogno di momenti d’inattività anche molto frequenti. A breve termine l’iperattività disturba la creatività, la consapevolezza di sé e il benessere emotivo.
Dare forma e corpo alla nostra felicità non è un concetto astratto, bensì un esercizio, una cura costante da saper praticare. E’ cruciale seguire dei semplici, ma non per questo facili, dettami. Rendere equo ogni aspetto della nostra quotidianità, cioè riconoscere che ogni momento che viviamo, sia nella vita privata che in quella pubblica, ha pari dignità. Dare più valore al nostro tempo, riconoscendolo come la risorsa principale della vita, che in quanto tale va gestita in maniera preziosa. Ascoltare le nostre emozioni e necessità, evitando di agire solo in base alle sollecitazioni e agli stimoli che ci arrivano dall’esterno, come dei flipper che reagiscono senza pensare o interiorizzare. Altre sfide cruciali e ardue sono evitare che la quotidianità diventi tutta una routine e tenere lontano dai propri schemi mentali il pensare in modo ossessivo, poiché l’ossessione di dover fare tutto e subito è la via maestra dell’infelicità e dell’insoddisfazione.
I rimpianti da Great Resignation
Altra indicazione essenziale consiste nella scelta di avere un atteggiamento proattivo in modo da aumentare le possibilità di decidere e influenzare gli eventi che ci riguardano, anziché subirli ed essere succubi degli eventi. Ovviamente in questo senso è importante imparare anche a dire di no, poiché la vita è sì fatta di compromessi, ma non necessariamente lo deve essere su tutto.
A livello globale, il periodo pandemico ha in realtà elevato il “dire no” a fenomeno di costume, come nel caso della Great Resignation, l’ondata di dimissioni che nel 2021 e 2022 ha interessato una enorme quantità di lavoratori, decine di milioni dei quali soltanto negli Usa. Nell’attuale contesto sociale, politico e sociologico totalmente ribaltato dagli anni della pandemia, non cessano i segnali in questo senso, come i filmati caricati su TikTok con gli hashtag quitmyjob e quittok. Storie che contano diverse centinaia di milioni di visualizzazioni e il cui senso è semplicemente: mi licenzio perché non ce la faccio più. Tra le ragioni più frequenti che spingono a lasciare il proprio lavoro, il burnout è quello più menzionato, specie tra i giovani. La domanda da porsi, e in maniera molto pressante, è come affrontare culturalmente, politicamente e sociologicamente questo cambiamento generazionale di approccio al lavoro.
Uno studio condotto negli Usa getta intanto una luce molto diversa, e a tinte piuttosto fosche, sul fenomeno Great Resignation, trend emerso per la volontà di trovare un diverso approccio al lavoro e il desiderio di un migliore work-life balance. Questa ricerca ha coinvolto 825 lavoratori che hanno cambiato lavoro, oltre che 354 datori di lavoro. I risultati sono sorprendenti: l’80% del campione ha dichiarato di aver rimpianto la decisione, fenomeno già prevedibilmente ribattezzato Great Regret, il grande rimpianto. Benché non si tratti di un campione statisticamente del tutto rappresentativo, trattandosi di un trend dai numeri enormi, le indicazioni che la ricerca fornisce sono estremamente interessanti.
I professionisti che cambiando lavoro hanno anche cambiato industry, ossia la maggioranza, hanno una probabilità maggiore di ricadere nella casistica di chi ha rimpianto la scelta. Tra le diverse generazioni, gli appartenenti alla Gen Z hanno i rimpianti maggiori. E anche la ricerca del nuovo lavoro dopo le dimissioni non è andata come molti speravano: circa la metà ci ha messo tra i 3 e i 6 mesi a trovare un altro posto di lavoro, quattro su dieci anche di più, dai 7 mesi in su. Soltanto uno su dieci si è ricollocato in meno di tre mesi. Soltanto la metà dei ricollocati dichiara poi di aver migliorato, nel nuovo posto di lavoro, la salute mentale e l’equilibrio tra vita privata e lavorativa.
Andata e ritorno
Un dato davvero d’impatto di questa ricerca è che circa i due terzi degli intervistati hanno dichiarato di aver provato a fare il percorso inverso, tornando al posto di lavoro originario, operazione che è andata in porto soltanto in un quarto circa dei casi. In entrambe le situazioni, chi è andato e basta e chi è tornato, abbiamo indicazioni precise su cosa mancasse di più del lavoro precedente. Al primo posto tra i rimpianti troviamo i “vecchi” colleghi, nel 29% dei casi, seguiti da salario, struttura dei bonus, copertura sanitaria, pranzi gratis, il management, work life balance, lavorare da remoto, lavorare da casa, la cultura aziendale, la natura del lavoro e gli orari flessibili, e siamo qui al 20% degli intervistati.
Chi è tornato all’ovile, in molti casi ha però ottenuto dei vantaggi significativi, sostanzialmente di due tipi: work life balance e aspetto economico. Il 38% dei ri-assunti nel vecchio posto di lavoro ha ottenuto condizioni migliori per il lavoro da remoto, il 34% una maggiore flessibilità negli orari lavorativi e il 24% bonus e incentivi di varia natura. Le grandi aziende sono risultate le meno propense a concedere benefit a chi è tornato, mentre le medie e piccole sono risultate decisamente più aperte.
Ciò che sorprende è la disponibilità dei precedenti employer a riprendere chi se n’era andato. Vero, soltanto il 27% dei datori di lavoro interpellati l’ha già fatto, ma soltanto il 30% dichiara di non averne la minima intenzione. Un corposo 43% sostiene infatti di non averlo ancora fatto, ma di averne l’intenzione. Questa ampia apertura alle seconde possibilità può essere interpretata in modi diversi. Intanto che i datori di lavoro hanno compreso, almeno in parte, quelle esigenze profonde e talvolta pressanti che avevano portato molte persone a cambiare aria, allineandosi diciamo così allo spirito del tempo e alle mutate sensibilità dei lavoratori.
Ma sottolinea anche il ruolo chiave della coesione e della cooperazione tra esseri umani: (ri)portare a bordo persone competenti e che portano armonia nella squadra di lavoro (ricordate, la prima cosa che mancava erano i vecchi colleghi) genera ambienti e flussi di lavoro più efficaci e produttivi. Il che ci riporta da dove avevamo iniziato questo post: alla centralità dell’essere umano, del suo benessere e del suo equilibrio, da perseguire e curare con attenzione costante e da mantenere sempre in cima alle priorità.