Rieccoci al via, ma siamo rimasti gli stessi?

Mutuando una frase del testo sacro babilonese Talmud, Jung diceva che noi esseri umani non vediamo le cose come sono ma le vediamo come siamo. Capire questa affermazione non è affatto facile né intuitivo né immediato perché noi umani, individui e collettività, tendenzialmente siamo ciò che ci siamo abituati a essere e vediamo le cose così come ci siamo abituati a vederle. La società dunque riflette ciò che tutti noi esseri umani ci siamo abituati a essere. Fintanto che non accade qualcosa che spariglia l’ordine precostituito delle cose. Per esempio, un fattore esterno come la pandemia che arriva imprevisto e ci mette di fronte a un contesto decisamente nuovo nel quale non abbiamo ancora sviluppato abitudini. In un contesto alieno devono e possono trovare spazio altre reazioni e altri comportamenti. Ricordiamo cosa successe durante il primo lockdown della scorsa primavera? Emerse subito una nuova visione del tessuto sociale improntata alla coopetition, nella quale era molto tangibile e forte l’anelito comunitario di arrivare alla buona riuscita dell’azione di depotenziamento del virus attraverso la capacità delle persone di “fare squadra”, di salvarsi dal contagio salvando il prossimo, il vicino, l’altro. Sino a oggi e in quasi tutti i campi, nel corso della vita, un essere umano è stato esposto più spesso alle dinamiche del conflitto rispetto che a quelle della pace. E questo ha fatto vincere il principio “mors tua, vita mea” in tutti i settori, dalla politica allo sport, dagli affari al business, tra colleghi e tra condomini, persino al semaforo o in famiglia. Quante volte siamo stati testimoni o addirittura protagonisti di scontri verbali o fisici che una volta avvenuti, nella rilettura ex post, ci hanno mortificato per la loro reale irrilevanza? Ora, passata l’estate e tornati di nuovo in un contesto di pericolo sanitario nel quale intanto ci siamo ambientati trasformando lo scenario da sconosciuto a noto, il sentiment generale è tornato alla precedente normalità: rabbia, scontri, prese di posizione, egoismi, prepotenze. Come se nulla fosse accaduto. Come se questa esperienza assoluta e inusuale non avesse lasciato alcuna traccia o effetto. Siamo tornati al caro vecchio e confortevole “mors tua, vita mea”. Apparentemente. Forse. Ma forse non completamente. Cioè non ci siamo tornati tutti. Altrimenti, se così non fosse, non avremmo visto la campagna social che il 3 novembre scorso intorno all’ora di pranzo, Burger King ha lanciato anche in Italia dopo che in UK aveva già sollevato scalpore. «Ordinate da McDonald’s – esordiva il breve comunicato - Non avremmo mai immaginato di chiedervelo. Così come non avremmo mai immaginato di invitarvi a ordinare da KFC, Old Wild West, Roadhouse, Rossopomodoro, Caffè Napoli, Spontini, Cioccolati Italiani, Panino Giusto... o da qualsiasi altro bar o ristorante, piccolo o grande che sia, sotto casa vostra». L’intento dell’iniziativa è palesemente quello di supportare dal rischio disoccupazione, le migliaia di persone impiegate nei fast food costrette a casa con le nuove strette alle misure anticovid. Tuttavia, non è per amore di dettaglio in cronaca che voglio valutare questa campagna di comunicazione, che oltretutto non fa altro che provare ad arginare con tutte le forze residue uno tsunami imprevisto e imprevedibile per le nostre abitudini di socialità e convivialità. Quello che mi interessa è l’attitudine scarsamente praticata prima d’ora nel business con la quale la campagna è stata pensata. Un’attitudine che ben rappresenta quel cambio di paradigma che personalmente perseguo e auspico da molto tempo e sul quale mi spendo come uomo, innovatore e manager: da “mors tua, vita mea” a “vita tua, vita mea”.