Italia: siamo veramente degli ignoranti?

Italia: siamo veramente degli ignoranti?
Da culla del sapere a fanalino di coda: siamo pronti a prenderci la responsabilità della rinascita?

L’Italia ha un patrimonio accademico tra i più antichi e prestigiosi al mondo. L’Università di Bologna (fondata nel 1088) è considerata la più antica università occidentale ancora in attività. A seguire, istituzioni come Pisa, Roma, Milano, Padova, Napoli Federico II e Pavia hanno segnato la storia del sapere europeo, formando scienziati e filosofi di fama mondiale: da Galileo Galilei a Enrico Fermi, da Rita Levi-Montalcini a Carlo Rubbia.

Per secoli, il sistema universitario italiano è stato sinonimo di innovazione e avanguardia. Ancora nel dopoguerra, la ricerca scientifica italiana ha dato contributi cruciali alla fisica, alla medicina, all’ingegneria. Ma già dagli anni ’80-’90 sono emerse le prime crepe, spesso nascoste dietro i fasti del passato.

Qualche dato chiave per capire la crisi:
• Investimenti: l’Italia investe circa l’1.5% del PIL in ricerca e sviluppo, contro una media UE di oltre il 2% e oltre il 3% di paesi come Germania e Svezia (dati Eurostat). La Cina è salita dal 0.9% di inizio anni 2000 a quasi il 2.5% oggi.
• Cervelli in fuga: secondo i dati ISTAT, negli ultimi dieci anni più di 30.000 ricercatori italiani si sono trasferiti all’estero, molti dei quali non fanno ritorno.
• Docenti: l’età media dei docenti universitari italiani è superiore ai 50 anni, una delle più alte in Europa. La rigidità del sistema blocca spesso l’ingresso dei giovani ricercatori.
• Classifiche internazionali: nelle classifiche globali, l’Italia riesce solo sporadicamente a piazzare atenei tra i primi 200. Anche la Sapienza di Roma e il Politecnico di Milano, pur avendo ottimi reparti, faticano a competere stabilmente ai vertici.

Come siamo arrivati a questo punto?

Le ragioni sono molteplici:
• Una cultura che ha spesso visto l’università come una “fabbrica di laureati” piuttosto che come un motore di ricerca e innovazione.
• Finanziamenti pubblici instabili e raramente strategici.
• Una burocrazia universitaria pesante, che limita la competitività e l’autonomia delle istituzioni.
•’Una scarsa sinergia tra università e industria, dove la ricerca applicata resta troppo spesso marginale.

E il paradosso?

L’Italia continua a sfornare talenti di livello mondiale. I nostri studenti, ricercatori e professori dimostrano capacità eccellenti quando si misurano su scala globale, ma sono costretti a dare il meglio altrove, perché il sistema non offre opportunità adeguate.

La domanda è: possiamo davvero continuare ad accettare che un Paese con una storia millenaria di sapere resti spettatore del futuro?

Non basta indignarsi: è ora di costruire una nuova stagione per l’università italiana. Il cambiamento parte da noi: cittadini, studenti, imprese e politica.
Siamo pronti a prenderci questa responsabilità?