Eccesso di domanda, deficit di visione

Dell’attuale crisi dei microchip che sta investendo in maniera generalizzata la produttività industriale a livello globale, derivata sia dal livello parossistico delle richieste dovuto a questi tempi di pandemia sia dalle tensioni tra Cina e Stati Uniti, uno degli elementi che più amaramente mi hanno colpito è stato un passaggio letto in un servizio pubblicato dal magazine di lingua inglese Nikkei Asia. Il presidente della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, che è la più grande fabbrica indipendente di semiconduttori al mondo, afferma che «prima si decideva quali chip produrre in base alle richieste che arrivavano», mentre nel caos odierno la concorrenza già molto accesa si è fatta addirittura spietata. La riprova arriva da ciò che aggiunge un dirigente del settore informatico: «stiamo dicendo ai nostri fornitori di non fornire i chip ai concorrenti più piccoli e offriamo più soldi per assicurarcene una quantità maggiore. È come se tutti pensassero: se non posso averne abbastanza, allora nessuno deve averli, tanto meno i miei rivali». Alcuni commentatori pensano che si tratti di una crisi più grave di quella scatenata dalla pandemia, altri invece la ritengono una enorme bolla gonfiata da un eccesso di offerta, a sua volta generato dalla forte domanda. Ma che sia vera l’una o l’altra ipotesi, mi interessa piuttosto indagare se non vi siano alternative a queste arcinote pratiche, volte ad accaparrarsi quantità esagerate di prodotti esclusivamente in via precauzionale e non per una reale esigenza. Perseverare con questi comportamenti, che hanno come inesorabile effetto quello di schiacciare molti altri attori della competizione, rende il mercato un teatro di guerra. Eppure i tempi sono maturi per una radicale trasformazione del paradigma. Oltretutto invocata dai consumatori stessi. Mi domando allora dove sia il vantaggio per un realistico aumento della prosperità nell'innescare questi periodi di eccesso di domanda, specialmente nel caso dei microchip, considerato che è poco probabile che ogni individuo inizi improvvisamente a comprarsi chissà quanti telefoni o macchine, per giunta in tempi di magra. La sola conseguenza che vedo è che nel frattempo molte aziende del settore potrebbero fallire, poiché escluse dalla filiera dell’approvvigionamento. È superfluo anche tratteggiare il circolo vizioso che queste pratiche innescano, con le inevitabili ricadute sull’occupazione e sull’economia reale. Basta semplicemente chiedersi: alla fine a chi venderanno i loro prodotti, queste aziende che soffocando il mercato, soffocano la società? Nel corso degli ultimi anni ci siamo spesso interrogati se, a fronte della situazione di stallo in cui la politica e i governi si sono ritrovati nell’affrontare le complesse sfide per la costruzione di un futuro più equo, giusto e sostenibile, non potesse essere invece il mondo dell’impresa a indicarci la via promuovendo un reale cambio di paradigma. E di fatto la risposta che in molti ci siamo dati è sempre stata affermativa. E non solo perché siamo convinti che presto o tardi verranno messe fuori mercato tutte quelle aziende che invece seguiteranno nella corsa al profitto senza scrupoli, distruggendo il Pianeta e sconvolgendo le società umane nel tentativo di perseguire soltanto il vantaggio proprio o del proprio settore. Ma anche per una decisiva ed evidente mappa di segnali in tal senso, che provengono sia dal mondo produttivo per il tramite di aziende e imprese sempre più virtuose, sia dall’enormemente variegato mondo del consumo. E infatti, la stragrande maggioranza delle giovani generazioni ritiene che le multinazionali abbiano il potenziale per contribuire a risolvere le sfide economiche, ambientali e sociali che abbiamo di fronte. Tutte le aziende dovrebbero dunque avere un po’ più di coraggio nel ripensare le proprie legacy e i propri modelli di business verso una direzione nuova da percorrere, quella di un’economia che rimetta al centro di tutto il sistema la persona.