Per innovare i soldi non bastano

“Nel lungo periodo la crescita economica dipende dall’innovazione, che a sua volta deriva dagli investimenti in ricerca e sviluppo” ha scritto recentemente il Wall Street Journal. “È sulla base di questa premessa che ad agosto il governo degli Stati Uniti ha deciso di stanziare duecento miliardi di dollari nel settore”.

 

200 miliardi di dollari, il 3% del PIL per l’innovazione negli Stati Uniti

Il quotidiano statunitense però evidenzia che oggi questi investimenti non sembrano dare grandi risultati, anche se corrispondono al 3 per cento del PIL statunitense e sono superiori a quelli fatti negli anni Sessanta del 20esimo secolo.

“Il miglior indicatore del contributo dell’innovazione alla crescita è la produttività totale dei fattori (il valore eccedente quello del lavoro e del capitale), che negli ultimi dieci anni è aumentata dello 0,5 per cento all’anno, la metà rispetto agli anni Sessanta. Altri dati suggeriscono inoltre che le scoperte rilevanti, per esempio i nuovi farmaci, stanno diventando più costose e richiedono più tempo. In altre parole, gli Stati Uniti stanno allentando il loro dominio nel campo scientifico”.

Per alcuni questa situazione dipende dal fatto che sono state fatte già tante scoperte e quindi oggi è più difficoltoso farne di nuove. In realtà – fa notare il quotidiano – il vero problema è il modo in cui si fa ricerca. “Le aziende più innovative non sono per forza quelle che spendono di più. Tesla, per esempio, negli ultimi tre anni ha investito in ricerca e sviluppo appena il 13 per cento di quello che spendono la General Motors e la Ford messe insieme. Eppure, oggi il suo valore di borsa è cinque volte quello delle due concorrenti”.

 

La ricerca manca di innovazione e la crescita è frenata

Bisogna considerare inoltre che spesso, per paura di fallire, le istituzioni e le aziende favoriscono ricercatori affermati che si concentrano in campi molto specifici, dove si migliora l’esistente, invece di aprire a scienziati giovani con progetti più innovativi ma rischiosi.

Perché sto proponendo un articolo sicuramente già circolato su molti organi di stampa? Perché mi permette di ritornare su alcuni concetti sui quali vengo discorrendo da diversi anni e di avvalorarli ulteriormente. La domanda da porci è: di cosa parliamo davvero quando parliamo di innovazione?

 

Cosa è l’innovazione?

Come ho avuto modo di scrivere nel mio libro Gratitudine. La rivoluzione necessaria “quando la Generazione Z, che ha le idee molto chiare in fatto di nuove tecnologie ma anche di salute e benessere, sarà matura per accedere ai mercati, non sarà più necessario neanche formularle la domanda o somministrarle sondaggi”.

Le generazioni più giovani portano nuove sensibilità e preferenze e hanno il potenziale per imprimere un cambiamento positivo al sistema, economico, sociale, politico, valoriale, ambientale ecc. riducendone le esternalità negative e favorendo una maggiore distribuzione dei benefici dell’economia di mercato.

Naturalmente l’essere portatori di un potenziale non è garanzia che poi esso venga realizzato, pienamente o soltanto in parte. Benché da molti punti vista le nuove generazioni siano “nativamente” più consapevoli e sensibili riguardo a quei problemi collettivi che le generazioni precedenti hanno colpevolmente ignorato, valga su tutti la questione climatica, il punto è in che modo una simile condizione influenzerà lo sviluppo di processi cognitivi adeguati per portare un effettivo impatto positivo.

 

Non tutti i cambiamenti sono innovazione

In termini generali, e non soltanto per le generazioni più giovani, a complicare le cose interviene il fatto che non tutti i cambiamenti sono innovazione, nel senso più autentico del termine. Per caso mi sono trovato a guardare un video di un incrocio stradale in una città della Corea del Sud, in cui pedoni in attesa di attraversare sulle strisce pedonali sono regolamentati da un nuovo tipo di semaforo: delle strisce luminose che cambiano nei canonici rosso e verde, ma posizionate all’altezza dell’asfalto, non più sopra la testa come i semafori tradizionali. Questo per venire incontro all’abitudine ormai consolidata degli abitanti di camminare con gli occhi incollati al proprio smartphone.

Un episodio minuto, ma credo rivelatorio. Se tecnicamente questo nuovo tipo di semaforo innova il paesaggio urbano, in realtà è tutto fuorché frutto di un genuino atto di innovazione. E’ al contrario un appiattimento a uno stato di cose, il vizio di camminare col volto all’ingiù verso il telefono, quindi un gesto reattivo a un’abitudine, peraltro niente affatto virtuosa o desiderabile.

L’innovazione invece è un potente atto di discontinuità: genera un prima e un dopo, apre la strada a nuovi scenari e visioni del mondo, interpretazioni inedite della realtà e sviluppi futuri parzialmente imprevedibili. Forse possiamo spiegare anche così il perché Tesla valga più di GM e Ford nonostante budget inferiori spesi in R&D. Soltanto una piccola parte dei cambiamenti che introduciamo nel mondo appartengono a buon diritto al dominio dell’innovazione. E soltanto questi ultimi saranno in grado di avere un impatto significativo nella costruzione del futuro.