Lavoro, la filosofia del 6 meno meno 

I toni sono meno roboanti, ma anche la sostanza è cambiata. Dal drastico fenomeno della Great Resignation, ossia l’ondata di dimissioni frutto dell’urgenza che la pandemia ha generato nelle persone di anteporre la qualità di vita a lavoro e carriera, al più soft Quiet Quitting. Si tratta non più dell’abbandono volontario del posto di lavoro e quindi la rinuncia allo stipendio, bensì di una gestione delle proprie mansioni più rilassata, più lenta e soprattutto più disinteressata alle sirene della carriera e della crescita retributiva, ritenute oramai promesse false e raramente raggiungibili.

 

Solo 1 dipendente su 5 è davvero coinvolto nel proprio lavoro

In comune i due fenomeni hanno l’obiettivo di mettere la vita davanti al lavoro, tendenza che sta emergendo soprattutto fra Millennial e Generation Z, senza distinzioni geografiche, in Usa come in Cina, dove si chiama «mo yu» – letteralmente «toccare i pesci». Il tema chiave è dunque il sentimento di distacco da una cultura che sino all’avvento della pandemia non aveva mai messo in discussione né la necessità di conseguire risultati e successi lavorativi, né il loro valore ultimo. Un vero epitaffio per tutte quelle pratiche aziendali che puntano all’engagement dei propri collaboratori.

Il fenomeno è globale e documentato. Il recente studio di Gallup intitolato «State of the global workplace 2022 Report», dice che solo il 21% dei dipendenti è davvero coinvolto nelle proprie mansioni, e solo il 33% si considera in una condizione di crescita e benessere. Il 44% si sente stressato, record di sempre, e la maggioranza non ritiene che la sua occupazione abbia davvero uno scopo o un significato profondo.

 

Un duro colpo all’employee engagement

In Europa solo il 14% dei dipendenti è davvero coinvolto dalla propria attività lavorativa. Negli Stati Uniti va un po’ meglio, cioè il 31%, ma Gen Z e Millennial sono particolarmente sfiduciati: in tale contesto è impossibile costruire la prosperità futura di una superpotenza. In Paesi come la Gran Bretagna la situazione è drammatica, al punto che solo il 9% dei lavoratori si considera «engaged» o entusiasta. Come definire poi quella italiana? Solo il 4% degli impiegati interpellati si sente pienamente appagato e coinvolto sul lavoro, mentre per il 96% degli italiani il lavoro sarebbe quel che si deve fare per campare. Neppure i cinesi si salvano: i giovani della Repubblica Popolare pensano di aver definitivamente perso la possibilità, concessa invece ai loro genitori, di risalire posizioni della scala sociale.

Il Quiet Quitting è allora una sorta di apatia, di ricerca ostinata del 6 striminzito, che si presenta formalmente come una scelta comportamentale basata sulla rinuncia volontaria alla partecipazione attiva, al senso di appartenenza a un’impresa, alla condivisione di nuove idee e nuovi punti di vista. È insomma l’esatto contrario di quell’employee engagement tanto agognato dalle aziende.

 

Servono empatia, complicità e manager più in gamba 

Con la sua indagine condotta su circa 3 mila manager, la Harvard Business Review ha osservato il fenomeno da una prospettiva diversa, partendo cioè non dalla disaffezione del lavoratore, bensì dalla capacità di un manager di favorire l’ingaggio dei propri collaboratori grazie alla costruzione di un rapporto di reciprocità. Ne è emerso che la volontà dei dipendenti di fare il minimo indispensabile è maggiormente diffusa in quei contesti in cui i capi non sono in grado di conciliare gli obiettivi di business con le esigenze e le priorità degli impiegati, mentre invece è molto meno presente nelle realtà lavorative dove c’è più empatia e complicità tra manager e dipendenti. 

Dunque, ancora una volta è alle capacità trasversali della classe manageriale che dobbiamo guardare, poiché è da questa che i lavoratori si aspettano la risoluzione dei motivi principali alla base della loro insoddisfazione: iniquità nel trattamento professionale, assenza di cultura che enfatizzi il rispetto delle persone e dei ruoli nella community, incapacità di riconoscere i meriti e di abolire pregiudizi e favoritismi, incoerenza nei compensi, irragionevolezza nella gestione del tempo e della pressione, incapacità di trasferire comunicazioni chiare.

Per quanto il tema possa sembrare solo di competenza dei capi delle risorse umane, nella realtà non lo è. E’ invece lo specchio di un problema ben più ampio e di fondo per qualsivoglia società umana. Basti pensare che che le unità aziendali con lavoratori motivati segnano profitti superiori del 23%, mentre i dipendenti che non sono coinvolti costano al mondo addirittura 7,8 trilioni di dollari in perdita di produttività, pari all′11% del PIL globale.