Diventiamo shock-resistant!

L’aumento dei costi di trasporto delle merci provenienti dall’Asia ha ridotto, in Europa, la disponibilità di alcuni beni di largo consumo. Si tratta di un problema che riguarda l’importazione di una larga gamma di merci che acquistiamo in Cina perché vengono prodotti lì, che a causa delle difficoltà indotte dalla pandemia rischiano di veder lievitare i prezzi. Superato il primo lockdown dell’anno scorso, la Cina già a novembre ha visto crescere le esportazioni del 21% rispetto all’anno precedente, nei settori produttivi di elettrodomestici, giocattoli, dispositivi di protezione individuale come mascherine e guanti, che come ben sappiamo sono una merce molto richiesta, ma anche di frutta secca o di biciclette. Per queste ultime, ad esempio, già da diversi mesi il mercato italiano registra un’incapacità di rispondere appieno all’aumento del 20% della richiesta perché appunto a causa dei rallentamenti nella logistica le nostre aziende del settore, circa 250, in prevalenza Pmi, che offrono occupazione a più di 12mila addetti fra diretti e indiretti, non ricevono le parti e la componentistica prodotte in Cina e nell’intero Far East. Questa è solo una delle conseguenze più problematiche sia dell’aumento delle esportazioni sia del perdurare della pandemia, per cui in questo periodo in Cina non è facile trovare container vuoti. Si tenga conto che proprio attraverso I container viene spostato il 60% delle merci globali e, secondo le statistiche commerciali dell’ONU, attualmente ne circolano 180 milioni. Dunque, i prezzi delle rotte verso l’Europa sono quadruplicati in due mesi dal momento che le aziende di spedizione si contendono quelli disponibili e, di conseguenza, ci saranno difficoltà produttive nelle aziende e aumento dei prezzi di diversi prodotti. Perché racconto tutto questo? Perché l’instabilità dei prezzi unita allo shock delle materie prime e alla crisi del debito, sono i rischi maggiori nei prossimi 3-5 anni secondo l’ultima edizione del Global Risk Report, che è stato reso pubblico recentemente ma non ha trovato il giusto spazio tra le notizie di primo piano. E perché invece dovrebbe essere messo in evidenza? La risposta la si può leggere nelle prima righe della prefazione dello studio quando dice che nel 2006 il Global Risk Report indicava come rischio a lungo termine le influenze letali la cui diffusione sarebbe stata facilitata proprio dall’intensificarsi dei viaggi ovunque nel mondo, e, l’anno successivo, anche il fenomeno che oggi abbiamo imparato a chiamare “infodemia”. Ma non ne faccio solo un tema di credibilità previsionale, quanto di necessità visto che la complessità della situazione attuale ci impone di guardare al prossimo futuro con un occhio molto più attento poiché, se l’anno scorso nel mondo abbiamo sperimentato le conseguenze catastrofiche dovute al fatto di avere a suo tempo ignorato i rischi individuati tra quelli a lungo termine come le pandemie che sono diventate adesso un rischio immediato, oggi non possiamo sottovalutare che le pressioni a livello finanziario, digitale e reputazionale derivanti dal Covid-19 minacciano di lasciare indietro molte aziende e la loro forza lavoro nei mercati del futuro.  È tempo di avere consapevolezza che lo stress test a cui la pandemia sta sottoponendo le fondamenta delle economie e delle società di tutto il mondo è il momento ideale, quello che io chiamo 0.0, per investire in nuovi modelli organizzativi più resilienti agli shock sistemici futuri. Questo potrà avvenire solo grazie a importanti investimenti non solo in termini economici ma soprattutto di collaborazione e cooperazione internazionale oltre che di coesione sociale, mirati contemporaneamente alla riduzione delle disuguaglianze, al miglioramento della salute e alla protezione del pianeta. Dunque, poiché il principale rischio di lungo termine resta il mancato intervento sul cambiamento climatico, i piani per la ripresa economica post-pandemia devono puntare ad allineare la crescita ai programmi di sostenibilità.