In questo mondo di “languishing”

La psicologia insegna che una delle migliori strategie per gestire le nostre emozioni è quella di dare loro un nome. Se sappiamo come chiamarle sappiamo con cosa abbiamo a che fare e quindi, per dirla in maniera pratica, anche come affrontare le diverse situazioni in cui compaiono. Questa attività si chiama alfabetizzazione emotiva ed è tanto importante quanto utile, proprio perché ci permette di introdurre le diverse azioni funzionali per affrontare diversi momenti. Come dovremmo chiamare dunque questa nuova emozione che da qualche tempo ha assalito molti di noi? Non possiamo definirla burnout, perché non sentiamo di avere esaurito le energie. E nemmeno depressione, dato che in generale non ci sentiamo senza speranza. Ci sentiamo solo un po’ privi di gioia e di scopo.  Secondo quanto scrive il New York Times, la definizione giusta è «languishing». È questa l’emozione che caratterizzerà il nostro 2021. Lo psicologo Adam Grant, autore di «Think Again: The Power of Knowing What You Don't Know » e ospite del podcast «TED WorkLife », lo definisce come un senso di stagnazione e di vuoto che ci fa arrancare nelle nostre giornate, oltre che vedere la nostra esistenza come attraverso un finestrino appannato. Grant propone una spiegazione incentrata sulla fisiologia. In pratica, nei primi periodi di incertezza dati dalla pandemia il sistema di rilevamento delle minacce del nostro cervello, l’amigdala, se ne stava in allerta pronto al combattimento o alla fuga. Poi, appreso quali fossero veramente le pratiche che ci aiutavano a proteggerci, come l’uso della mascherina e la distanza fisica, probabilmente ha sviluppato quel senso di routine che ha alleggerito e assottigliato la paura. A causa del protrarsi della crisi sanitaria, la paura ha quindi lasciato il posto a una condizione cronica di «languishing», che non è altro se non il vuoto tra i due opposti: da un lato la depressione, dall’altro la prosperità. Dunque, questo stato di languore è in sintesi l’assenza di benessere. Il perdurare di questo stato crea il serio pericolo che potremmo smettere di notare l'attenuazione della gioia o dello slancio. Non ci si accorge di scivolare lentamente nella solitudine e si diventa indifferenti alla nostra stessa indifferenza. Allora cosa possiamo fare al riguardo? L’antidoto di Grant è nel concetto chiamato «flusso», che consiste in quell'inafferrabile stato che generiamo quando siamo totalmente assorbiti da una sfida significativa, stato in cui il senso del tempo, del luogo e del sé si dissolvono. Durante i primi giorni della pandemia, sostiene, il miglior indicatore di benessere non era l'ottimismo o la consapevolezza, bensì il flusso. Infatti le persone che si sono immerse di più nei loro progetti sono riuscite a evitare di languire e hanno mantenuto così la loro prosperità pre-pandemica. Come ho avuto modo di scrivere anche nel mio ultimo saggio «Gratitudine, La rivoluzione necessaria», la sfida per i prossimi anni è dunque focalizzata sulla necessità di far fiorire attorno a noi e per noi sempre più prosperità e sempre meno ricchezza fine a se stessa. La prosperità è una condizione relativa all’essere, e contiene necessariamente già anche la ricchezza, la quale è invece correlata all’avere. La ricchezza non comporta necessariamente anche la prosperità, mentre è valida con assoluta certezza la relazione inversa: dove c’è prosperità c’è sempre anche ricchezza, perché la seconda è uno strumento che consente alla prima di fiorire. Affinché ciò avvenga, ciascuno di noi dovrà quindi lavorare su sé stesso agendo dall’interno della propria sfera di influenza, per evolvere a un livello superiore di idee, di emozioni e di azioni, contribuendo a generare amore, rispetto e soprattutto gratitudine.