I brand devono fare la differenza

Un paio di sabati fa mi sono soffermato su un articolo pubblicato dal Sole 24 Ore con il titolo “Ambiente, diversità, inclusione: brand sull’orlo di una crisi di scopo”. Non vi nascondo di averlo letto avidamente con la neanche tanto nascosta speranza di trovarvi spunti di novità e tracce di concretezza. Non vi nascondo neanche di averlo voluto subito condividere con una mia chat di “esperti” dell’argomento, con lo scopo di capire se la loro reazione fosse diversa dalla mia: una sottile quanto profonda delusione. Certamente la delusione non è attribuibile alla testata giornalistica né, men che meno, alle capacità dell’estensore che, anzi, ha raccolto quanti più elementi ed esempi possibili e quanto più attuali, per comporre una gallery esaustiva dello stato di avanzamento delle aziende e dei marchi lungo il loro cammino nell’era del “purpose”.  La delusione è derivata dagli esempi. A un certo punto della lettura mi è tornato in mente uno degli aneddoti sul marketing più conosciuti, attribuito al noto pubblicitario francese Jaques Séguéla. Questo aneddoto racconta appunto di un pubblicitario che ogni giorno, sulla sua strada, incrociava un cieco con una latta per le elemosine mezza vuota e il cartello: "Sono cieco. Per favore aiutami”. Un giorno, oltre a lasciare la consueta moneta, il pubblicitario prende il cartello e scrive qualcosa. Il giorno successivo, mostrando la latta piena di monetine, il cieco gli domanda che cosa abbia mai scritto per generare tanta generosità. “Niente di più dell’ovvio” è stata la risposta del pubblicitario. Sul cartello aveva scritto “È primavera e io sono cieco. Per favore aiutami”. In soldoni il pubblicitario, aggiungendo il dato di fatto sul cartello del questuante, ha scelto proprio quel dato di fatto più in grado di aggiungere un’emozione universale e di conseguenza più utile al suo scopo di riempire la latta delle elemosine. Uno scopo nobilissimo, ovviamente, così come è nobilissimo il gesto di chiunque si soffermi e si prodighi per i bisogni degli ultimi. Ma se usciamo dal particolare, e allarghiamo la prospettiva alla dimensione generale del marketing e della comunicazione, osservando la gallery proposta dall’articolo, mi pare che non ci siamo allontanati molto dalla morale dell’aneddoto. Gli esempi raccontati nell’articolo, che avrete visto e letto nelle scorse settimane, sono lo spot molto emozionante in cui un noto cardiochirurgo italiano, indossando un visore di realtà virtuale e sfruttando la connessione 5G, guida una sala operatoria in un intervento chirurgico, senza allontanarsi molto dalla chiesa in cui si trova per assistere a un matrimonio. L’originale spot con cui Ikea ci comunica di avere preso la difficile decisione di non inviarci più il suo catalogo cartaceo, uno dei prodotti di maggior successo, nella cassetta della nostra posta. L’invito che Nike rivolge a designer, ingegneri, scienziati e produttori, a trovare soluzioni capaci di trasformare i rifiuti in flussi di valore come richiesto dai principi dell’economia circolare. Le dichiarazioni del ceo di Virgin, società del magnate britannico Richard Branson impegnato da tempo sul tema ambientalistico, che ha detto che in questo momento ciascuno di noi dovrebbe chiedersi seriamente se prendere un aereo contribuendo ad aumentare il riscaldamento globale, o scegliere un mezzo diverso. L’intenzione comunicata dal ceo di Unilever, di voler cedere quei marchi che danneggiano il pianeta o la comunità perché lo chiedono i consumatori che oggi vogliono acquistare solo da aziende che abbiano uno scopo ecc. ecc. Allora mi chiedo e vi chiedo: ma oltre alle dichiarazioni, agli slogan, agli spot che scatenano ondate di emozioni, le marche e le aziende che oggi parlano di “purpose”, hanno davvero raggiunto piena consapevolezza dei temi oggi centrali per le generazioni più giovani? Sono davvero disposte a rivedere il proprio modello di business per dimostrare che diversità, inclusione, ambiente, trasparenza non sono solo parole del loro nuovo linguaggio di comunicazione? Io sono fermamente convinto che traguarderanno il futuro solo quelle aziende che prima di iniziare a investire in comunicazione per raccontare i propri buoni propositi, inizino a compiere quelle azioni che alla fine avranno un senso riconosciuto. Avranno un senso riconosciuto solo quelle azioni realmente ispirate da una vocazione profonda, e non da un preconfezionato “purpose”, e finalizzate al bene per l’insieme. Saranno dunque veramente redditizie solo se avranno prodotto un frutto, abbondante ed equo, contemporaneamente per tutti i 7 livelli di manifestazione delle nostre vite. Quelle che nella mia Economia 0.0 ho definito nel modello delle 7P (Person, People, Partnership, Profit, Prosperity, Planet, Peace) e del relativo 7P Index. In questo caso, il riscontro oggettivo che riceveranno sarà un autentico senso di gratitudine provato nei loro confronti contemporaneamente da ciascuno dei 7 livelli. Non è un caso ma solo l’inizio, che il 62% degli intervistati da IPSOS in 28 Paesi, oggi pretenda che le aziende diano un contributo fattivo alla comunità e vada alla ricerca di brand che permettano di fare la differenza nel mondo.