Troppa velocità è tempo perso

In origine furono i 140 caratteri, l’allora limite massimo di lunghezza per un Tweet, pietra miliare della necessità di estrema sintesi al tempo del web. In un costante gioco al ribasso nel vortice della comunicazione digitale, siamo poi arrivati ai 15 secondi delle stories di Instagram. Nel mezzo, la celebre ricerca condotta anni fa da Microsoft secondo cui la capacità attentiva di un americano medio è quantificabile in 8 secondi, inferiore a quella di un pesce rosso. Oggi le generazioni più giovani in particolare sono avvinte dalla roulette senza fine di TikTok, dove i like o gli skip piovono a cascata dopo pochi secondi, certamente meno di otto.  Ci stiamo insomma perdendo nella fretta, impoverendo e smantellando il nostro linguaggio, sacrificato sull’altare della velocità. Alcuni additano come primo responsabile di questa estrema volubilità di fruizione non solo le regole di ingaggio dei social, ma anche e soprattutto l’enorme quantità di contenuti a disposizione e dunque di scelta. Pensando alla profondità dei cataloghi delle piattaforme audiovisive o dei newsfeed dei social, certamente si tratta di un fattore rilevante. Ma è solo un mattoncino di uno scenario molto più articolato. Arriviamo da oltre un anno di pandemia, di lockdown e costanti raffiche di videochiamate. Un anno in cui giocoforza ci siamo privati di tutta quella parte di linguaggio che è non verbale: la postura del corpo, la posizione delle braccia, il sostenere lo sguardo altrui. Annullato il non verbale, stiamo mettendo sotto tiro anche il paraverbale, quindi il tono, l’intensità, le cadenze, uniformandole alle regole del gioco online. Di questo passo, in un succedersi di strozzature, rimarrà quasi soltanto la parola, ossia il contenuto, una parte in verità assai ridotta della maestosa espressività dei linguaggi umani. Ma quanto poi effettivamente riusciamo a trarre dai contenuti con cui entriamo in contatto? Ripensando alla faccenda del pesce rosso, i segnali non sono incoraggianti. Se da un lato sta crescendo l’analfabetismo funzionale, ossia l’incapacità di trarre conseguenze logiche dalle informazioni di cui entriamo in possesso, dall’altro l’effetto Flynn, ossia la valutazione che il quoziente intellettivo medio nel 20esimo secolo è cresciuto tra i 5 e i 25 punti da una generazione all’altra, pare essere un lontano ricordo. Alle soglie del nuovo decennio, nel 2020, si è registrata infatti una diminuzione del QI medio tra lo 0,25 e il 0,50 per cento da una generazione all’altra. Questo trend invertito non significa al momento che stiamo diventando più stupidi, soltanto che la nostra intelligenza non cresce più come un tempo. Sarà anche per via del trattamento che stiamo riservando al nostro linguaggio, che è la forma che diamo all’interpretazione del mondo e ai nostri pensieri?   Se riduciamo all’osso il linguaggio e i tempi di fruizione dei contenuti che modelliamo con esso, è perché stiamo progressivamente spostando il focus dal messaggio comunicato alla mera intenzione di comunicare, indifferente a ciò che viene veicolato. Un eccesso di velocità senza orientamento significa rimanere alla superficie del processo comunicativo, limitando a dismisura il suo potenziale: rivelazione, stupore, meraviglia, cambi di punto di vista, empatia, curiosità, attrazione, in breve tutto ciò che rende il comunicare un atto creativo ed umano, accadono in profondità, non a pelo d’acqua. Emozioni da vivere a 1x, semplicemente perché a 2x, 3x o 4x è estremamente improbabile che abbiano modo di attecchire nella mente e nel cuore dell’interlocutore. La velocità senza un orientamento è sì tempo risparmiato, ma in fin dei conti è tempo perso del tutto.