Sono stato in prigione… e ho tentato di splendere

Partiamo dalla fine. Dall’urgenza di uno dei detenuti con cui mi sono fermato a parlare nella cappella della Casa Circondariale di Verona, dopo oltre due ore in cui avevo raccontato le idee che sto studiando da anni. “Come faccio a splendere? Io vorrei farlo, davvero, ma come faccio? Ti prego, spiegami come si fa a splendere”.

Mentre mi parlava a distanza di pochissimi centimetri dal mio viso… io sono entrato in apnea. Quel ragazzo di origini magrebine e di poco più di venti anni mi fissava con degli occhi luminosissimi mentre mi poneva quelle domande: non se ne rendeva conto, ma solo facendosi quella domanda lui stava già splendendo. E la sua luce era incredibilmente luminosa! Non esistono risposte univoche, tanto meno risposte giuste o sbagliate, a domande del genere, così sentite, così assolute.

Appena uscito da quegli attimi di apnea mi sono sentito di rispondergli con semplicità: “Tu splendi e basta! Basta volerlo fare con tutto il cuore: è quello il momento in cui cambia tutto. Sentirsi dentro quella luce è possibile perché ognuno di noi ce l’ha già in potenza. Basta solo accenderla”. Dare seguito a quell’urgenza è però un atto totalmente privato, non una formula sempre uguale propinabile con pari efficacia a chiunque. Ognuno di noi sa già come splendere, deve soltanto ricordarsi di farlo e desiderare poi di non spegnersi mai più. Inizieremo illuminando noi stessi, poi un altro, poi altri, poi molti, poi il mondo …per tornare infine a noi stessi, in un moto perpetuo 0.0. Ce lo dobbiamo come singoli individui. Ce lo dobbiamo come specie. 

Parlare a una platea di detenuti, uomini e donne, giovani e vecchi, italiani e stranieri, piccoli criminali ed ergastolani, è stata un’esperienza totalmente nuova e inaspettatamente emozionante per me che di platee ne ho viste di tutti i tipi, in molti paesi del mondo. Ogni dettaglio di quel luogo – un carcere! – ti ricorda la preziosità e unicità della più grande fortuna che ci è stata donata dalla vita: la libertà di essere. Ma la domanda interiore, mentre parlavo a quei nuovi amici, è tuonata imperiosa dentro di me: Essere cosa? Essere chi? E perché… essere? Quando non hai un perché, un per-cosa, un per-chi, potresti correre il rischio di essere ‘fuori legge’. Fuori legge verso la regola primaria della vita: dare un senso alla nostra esistenza. A quel punto allora potrebbe accadere che tu ti confonda e sbagli nelle scelte delle tue priorità; fino ad essere così confuso da non sapere distinguere nemmeno più il bene dal male. E così, quasi inaspettatamente, ti risvegli rinchiuso in un mondo fatto di altro e fatto da altri, in cui vigono regole precise, rigide, inevitabili, ideate e applicate con il preciso scopo di modellare la quotidianità della tua esistenza. Un mondo che chiamano prigione, carcere, galera. E a quel punto il tempo si dilata così tanto nel nulla che ti sembra di aver così poco da non avere più nemmeno una vita.

Persino nelle vesti di ospite e visitatore di questo luogo, senti chiaramente che il solo tragitto dal parcheggio all’interno del carcere è la parabola di un passaggio di status – da uomo libero a uomo soggetto a regole altre – ottenuto per graduali e progressive sottrazioni. Il tuo documento personale rimane nel gabbiotto esterno: prima linea di controllo. Il cellulare trova posto nell’armadietto, appena prima del passaggio attraverso il metal detector, dove il resto degli effetti personali viene posato su un tavolo e passato in rassegna; e comunque non puoi portare con te quasi nulla: seconda linea di controllo.

Il tragitto fino alla cappella della prigione, luogo di ritrovo scelto per il mio intervento, è fatto di lunghi corridoi, di svolte nette senza mai una curva, di spazi funzionali e freddi. Ogni metro che lasci dietro di te è una terza, quarta, quinta… ennesima linea di controllo. Camminando incontri quegli elementi visivi che ti eri prefigurato guardando film e documentari. Non è come alla tv o al cinema, non è meglio o peggio di come te l’aspettavi. E’ e basta! Le sbarre sulle aperture verso l’esterno, le divise della polizia penitenziaria, i colori spenti, complice anche la rigida e nebbiosa giornata di metà dicembre là fuori. Poi però, procedendo nella camminata, incontri anche luoghi che parlano chiaramente di azioni, di lavoro, di attività, di reintegrazione, di redenzione. A questo punto tocca a te: devi lasciare che il cuore si lasci riscaldare da quello che vedi. Devi aumentare la sensibilità negli occhi per consentire loro di cogliere i segnali di speranza, che sono piccoli ma che ci sono! Devi saper cogliere nell’attitudine austera del personale penitenziario e dei suoi dirigenti la volontà di fare una missione della loro quotidianità professionale, e non semplicemente di voler svolgere una qualsiasi attività lavorativa.

Potresti così scoprire che anche le pizzette, le focacce e il pane che ti vengono offerti – e che vengono servite ogni mattina anche ad alcune scuole elementari di Verona – sono piccoli semi di luce. Così come lo sono gli articoli di pelletteria e di sartoria che vengono realizzati nei laboratori, e così anche le ore che alcuni detenuti trascorrono regolarmente per studiare la mattina e lavorare la sera.

Capisci infine che ogni uomo ha una sua storia che ha origini lontane; capisci che è giusto che questa storia venga giudicata da una legge che è per antonomasia “uguale per tutti”; ma capisci anche che la fallibilità è parte della nostra natura umana, e che nessuno uomo ha il diritto di privare un altro uomo della possibilità di splendere incessantemente anche nelle situazioni più buie.

A questo punto, una volta entrato in quella stanza adattata regolarmente a cappella per la messa, ma per l’occasione a luogo di riunione con me, ho dovuto iniziare a parlare. Per la prima volta da quando parlo regolarmente in pubblico, non mi ero preparato nulla. Mi ero solo fatto una raccomandazione (da solo): “affidati alla tua parte più sensibile, Oscar. Dirai solo ciò che è utile e bene”. E così mi è parso sia stato per oltre due interminabili ore. Ad ogni minuto sentivo che mi stavo guadagnando un micron della loro accoglienza e disponibilità, della loro fiducia, e quella che sembrava una interminabile salita si è presto trasformata in una discesa finita ahimè troppo presto. Quello che ci siamo detti resta fra noi, fra quelle mura. Ed io me ne sono andato tra molte lacrime (comprese le mie) che sono iniziate a sgorgare quando ci siamo resi conto tutti insieme – ed eravamo molti! – che la luce ha bisogno del buio per poter splendere e che il cielo ha bisogno di ogni sua stella. A noi resta solo il compito di non smettere mai di splendere.

Sono tornato a casa felice perché ritornerò da loro fra qualche mese. Nel frattempo leggeranno a scuola “Il Tempo dei Nuovi Eroi” e ci rivedremo per parlarne e splendere tutti insieme.

 

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