Recentemente ho prima ascoltato e poi letto su The New York Times un'intervista fatta a Peter Thiel, il cui titolo ("Peter Thiel e l'Anticristo. ...
L’odio online, tuttavia, non ha solo ampliato i propri confini diventando capace di generare veri e propri movimenti opposti e contrari, ma si è anche più radicalizzato e la prova appare chiaramente quando si incrociano temi legati ai diritti economici, sociali e culturali. Temi nei quali affonda le radici la crisi che stiamo attraversando che come ben abbiamo compreso non è solo sanitaria o economica ma di portata ben più ampia. Ed è in questo terreno che si ramifica con maggiore vigore quel sentimento di rabbia che sfocia nella caccia al suddetto untore. Basti guardare la reazione degli utenti in risposta ai post o ai tweet dei politici.
In una fase così delicata è dunque la comunicazione cosiddetta istituzionale a doversi assumere il ruolo essenziale di raccontare un presente estremamente complesso usando un approccio di estrema neutralità e un linguaggio chiaro, comprensibile e inclusivo. Mentre in realtà il registro stilistico scelto si è rivelato e si rivela nella maggior parte dei casi o troppo complesso o troppo astratto, e di conseguenza portatore di ulteriore confusione soprattutto in quelle fasce poco scolarizzate, o con una scarsa conoscenza della lingua, che sono perciò più vulnerabili e più esposte al rischio.
«La parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che l’ascolta», sosteneva uno tra i più celebri filosofi del rinascimento francese. Eppure, nonostante dal rinascimento ad oggi Montaigne sia stato letto, studiato e citato infinite volte non siamo ancora stati capaci di soffermarci e riflettere sul significato più autentico di questa semplice e finanche scarna affermazione. Se lo facessimo capiremmo perfettamente il potenziale di violenza che già per sua natura il linguaggio possiede in quanto flusso che non si esaurisce con l’ultima parola pronunciata ma prosegue nella coscienza di chi ascolta, nell’intimo del suo essere.
L’idea che stiamo andando verso una deriva comportamentale che, in spregio alle regole della coesistenza nel rispetto dei diritti di tutti, avochi a sé forme di linguaggio espressamente odiose e violente finalizzate a incitare scientemente lo scontro, mi pare una delle più evidenti forme di inciviltà. E lo è in termini assoluti, chiunque sia a esprimerle, chiunque sia il destinatario, qualunque sia l’oggetto.
Se nel nostro Paese da dieci anni a questa parte i crimini d’odio rilevati dal ministero dell’Interno risultano letteralmente esplosi, il segnale che vi scorgo è di duplice natura: da un lato la scomparsa della speranza e dall’altro il preludio a una violenza anche fisica. Dunque, non vi è solo da incidere per un cambio di rotta attraverso azioni istituzionali o normative. Non vi è solo da auspicare che i gestori delle piattaforme social si strutturino con sistemi capaci di mitigare il rischio se non di censurare i casi più eclatanti, c’è da intervenire a monte, ripristinando una consapevolezza individuale.
Per innescare questo processo a ritroso amerei poter contare sul senso del dovere e sulla ragionevolezza di coloro i quali hanno raggiunto posizioni apicali nel mondo della scienza, della politica, dell’arte o dell’economia e che pur tuttavia vedo indulgere alla stessa pratica.
Li esorto a considerare quanto un simile atteggiamento possa essere estremamente pericoloso poiché veicola il messaggio che manifestare odio direttamente o aizzarlo negli altri sia una pratica trasversale, quindi normale e dunque definitivamente omologata. Da qui a che venga considerata anche giusta il passo non è poi così breve.