Il costo ambientale del digitale

4,72 miliardi è il numero degli utenti nel mondo che lo scorso aprile hanno utilizzato Internet. Siamo di fronte a un numero che rappresenta più del 60% della popolazione mondiale complessiva. Un numero che continua ad aumentare: negli ultimi 12 mesi si sono contati più di 300 milioni di nuovi utilizzatori, entrati per la prima volta nel mondo della rete. Certo è un mondo che in questo periodo di pandemia è cresciuto ulteriormente, poiché ci ha permesso di adempiere alle regole di distanziamento fisico grazie al trasferire in rete di diverse e molteplici attività lavorative. Nessun settore infatti è rimasto escluso dalla formidabile accelerazione che il coronavirus ha impresso alla rivoluzione digitale nel mondo del lavoro. Ma, a differenza di quanto appaia pulito e asettico ai nostri occhi, è anche un mondo il cui potere inquinante non siamo capaci di vedere. Se Internet fosse uno Stato sarebbe il quarto al mondo per emissioni di CO2. Lo ha messo in evidenza uno studio del Global Carbon Project e lo ha commentato anche il ministro della Transizione ecologica con la recente battuta “Il digitale? Fantastico, ma inquina il doppio del trasporto aereo”. L’impatto ambientale che non vediamo direttamente è dovuto a diversi fattori, a partire dai processi di produzione e smaltimento dei device che usiamo per farlo funzionare, per finire all’energia che singolarmente consumiamo nel loro uso. Anch’essa produce CO2 se non proviene da fonti rinnovabili. Giusto per fare un esempio, un’ora di videochiamata ne produce 170 grammi. Un’ora di streaming 100 grammi. Un tweet 0,2 grammi. Una mail dai 4 ai 50 grammi in funzione della quantità degli allegati. Secondo un recente studio nel 2040 l’incidenza del digitale sulla produzione di gas serra si attesterà al 14% delle emissioni globali. E non è difficile credervi visto che secondo le stime attuali ogni utente digitale è responsabile della produzione di 414 chilogrammi di anidride carbonica all’anno. Pur in presenza di questi dati, mi sembra non solo più pertinente ma soprattutto più utile domandarci se sia Internet in sé a inquinare o non lo siano invece i nostri comportamenti. Gli acquisti online che ci appaiono così comodi perché immediati (ma compulsivi) generano una quantità enorme di rifiuti e di traffico. Quando compriamo abbigliamento per esempio, pensiamo mai a quante probabilità ci siano che le taglie non vadano bene e che si debba inviare indietro il capo comprato? Sappiamo che spesso con un click rischiamo di attivare fino a 15 viaggi? Le nostre abitudini digitali oramai radicate in un terreno di inconsapevolezza rischiano di far diventare anche la tecnologia, per molti versi essenziale nel progresso dell’intera umanità, uno strumento altamente inquinante e dannoso per la salute del Pianeta. Spesso ho avuto modo di raccontare come mi sia stato insegnato che il segreto della vita sta nell’orientamento. La vita stessa è un costante esercizio di orientamento. È una questione di sensibilità. E la sensibilità si sviluppa, si addestra, si affina, ma questo affinamento non avviene accidentalmente né meccanicamente. Questo affinamento è a sua volta frutto di una volontà: la volontà di contribuire. Possiamo e dobbiamo contribuire a una nuova cultura d’uso degli strumenti di cui disponiamo. Possiamo e dobbiamo imparare a capire che dietro al concetto di gratuità in realtà di nascondono costi enormi che ricadranno prima o poi, direttamente o indirettamente, anche su di noi. L’uso indiavolato che facciamo degli smartphone, dei social, delle piattaforme di messaggi, come detto ha enormi costi in termini di impatto ambientale che alla fine paghiamo tutti in salute, qualità dell’aria, dell’acqua, delle città e delle località in cui viviamo. Anche se non avremo speso denaro per un post o uno streaming in più , l’altro costo, quello non immediatamente monetizzabile, sarà comunque da pagare.