Essere umani è essere vita

Sono stato al Festival del Cinema di Venezia, la scorsa settimana. Ci sono andato, insieme al professor Canova e al maestro Placido, a presentare il docufilm Stupor Mundi che abbiamo prodotto con la nostra piattaforma culturale Centodieci.it.

E mentre me ne stavo lì, a guardar scorrere quelle immagini della città magnifica che è Palermo grazie alla sua storia, alle tracce incredibilmente innovatrici che la visione di Federico II di Svevia le ha impresso e ha impresso alla cultura del suo tempo e che ci parlano ancora oggi con incredibile potenza, nonostante le avessi viste una discreta quantità di volte, non ho potuto fare altro che metterle a confronto con le immagini della nostra contemporaneità più recente. Con quelle che giorno dopo giorno, quotidianamente, ci raccontano la nostra attualità, il contesto in cui viviamo, i fatti che agiamo, le politiche con cui ci organizziamo, i linguaggi con cui comunichiamo e ci raccontiamo, e, onestamente, mi sono reso conto che se dalle prime che ci raccontano il nostro passato remoto traggo una importantissima lezione sullo stare insieme, il vivere con gli altri e il sapersi fare carico delle proprie responsabilità, dalle seconde derivo la prova che stiamo fallendo.

Stiamo fallendo perché pensiamo sempre di avere ragione e, così facendo, non ci spingiamo mai a indagare i motivi e gli elementi alla base delle diversità. L’unica verità, per me e per noi, continua ad essere la mia e la nostra. Così come l’unica verità per lui e per loro, continua ad essere la sua e la loro. E così non ci incontreremo mai. Perché l’unica verità è la verità, e l’unica giustizia è la giustezza.

Ci stiamo isolando, rendendoci chiusi gli uni agli altri. Chiusi a noi stessi; alla parte migliore di noi stessi. Microcosmi finiti i cui confini ben presto mostreranno la nostra limitatezza, privandoci definitivamente di quello slancio, innato nella nostra specie, a superarci, migliorandoci continuamente come individui e come umanità. Ci stiamo per dimenticare che essere umani è essere vita. 

Sfioriamo gli otto miliardi. Siamo una moltitudine di individui contenuta in poche decine di Paesi. Una moltitudine a rischio deflagrazione se non trova la profonda unità con la propria specie e la propria origine comune. Il tesoro dell’unità umana è la sua diversità e il tesoro della diversità umana è la sua unità. Dovremmo divenire bifocali: pensare a questa unità senza ritenere secondaria la diversità. 

Dovremmo capire che il nostro valore non dipende dalla capacità di imporre noi stessi, quanto invece per la capacità di accogliere tutta quella diversità che sarà per noi ricchezza. Proprio sul cumulo dei nostri errori, dei fallimenti, delle incongruità, ci dovremmo educare a credere nella collettività a svantaggio dell’individualità, alla sensibilità a svantaggio della prevaricazione, alla gratitudine a svantaggio dell’arroganza.  

Mentre rivedo le immagini degli accadimenti estivi sento crescere la preoccupazione per esserci affidati troppo a lungo a degli inetti, a dei superficiali, a dei, poco e male educati, governanti che non riescono ad andare oltre una barriera, fisica o ideologica non fa ormai più differenza, a degli incapaci di rinnovarsi e di innovare, a degli insensibili ai più ovvi fondamentali della sostenibilità. Al contempo mi preoccupa la deresponsabilizzazione della gente, che non si sente più nemmeno in dovere di assumersi la propria parte di responsabilità.

Mi preoccupa il disorientamento della massa, che è stata privata dei valori fondamentali come se improvvisamente non fossero più importanti. Mi preoccupa l’aridità culturale e questa ostentazione di ignoranza, priva di vergogna, e di come riusciamo a digerire l’ennesimo boccone amaro senza quasi più alcuna rimostranza. Mi preoccupa il vuoto interiore di chi banalizza sui mezzi di comunicazione e sui social media la sacralità della vita altrui. Potrei concentrarmi sui fatti epocali di politica mondiale, da Hong-Kong all’Amazzonia, alla guerra monetaria tra Cina e USA, al crollo della Germania, alla gestione dell’immigrazione in Europa, all’ennesimo innalzamento della tensione in Israele, fino al siparietto del Governo italiano.

Prendo invece a modello la vicenda accaduta nel novarese e mi arrovello al pensiero di come una mente e un cuore di un nostro figlio possano essersi così inariditi da decidere di uccidere un amico e non riuscire a fare altro che un post di autoassoluzione seppur di vanteria. E nello stesso tempo però sono anche grato, badate bene, non certo per il crimine che quell’essere umano ha commesso, ma per la campagna di comunicazione che è stata costruita in seguito sull’accaduto, perché fa da specchio a tutti noi, al nostro stato, alla nostra condizione.

Ripartiamo da qui. Ripartiamo dalla totale assenza di consapevolezza di quel gesto, che per un motivo o per un altro rappresenta tutti noi, individui confusi, inconsapevoli, preoccupati, disorientati, violenti. Quel post pubblicato da un ragazzo che potrebbe essere nostro figlio, da un essere che potremmo domani essere noi, è uno specchio e un’icona di un tempo, che ci può aiutare a dire ‘mai più così’! 

Non lo sto giustificando in quanto prodotto della nostra società, come non giustifico nemmeno me stesso per tutte quelle volte in cui potrei fare e non faccio, in cui potrei fare di più o fare la differenza e non lo faccio, perché convinto che non dipenda da me. Ripartire da questo caso di cronaca significa per me ‘ripartire da me stesso’, significa spostare il focus da fuori di me a dentro di me, convinto che la società ‘fuori’ di noi altro non sia che un riflesso del nostro mondo interiore. Se vuoi occuparti dell’altro, occupati per primo di te stesso. A quel punto saremo liberi di decidere il ruolo che vogliamo recitare in questa vita. Ma una cosa non ci è più consentita di fare: restare a guardare. Prendiamoci un tempo, anche un solo minuto al giorno, sessanta secondi, per restare con la parte migliore di noi stessi e riflettere sullo scopo ultimo delle nostre vite.