Dietro al “lessico di guerra”

Le parole sono importanti. Lo sono sempre, in tempi tranquilli e in tempi difficili. Con le parole rendiamo reale il mondo. I pensieri, i progetti, il futuro, quello che sarà prendono forma e si sostanziano attraverso le parole. Tutto esiste se viene raccontato. Le parole che si scelgono per nominare e descrivere gli eventi, i fenomeni, gli accadimenti, ci aiutano a capirli o a non capirli correttamente. Perché? Perché scegliendo parole e definizioni imprecise o addirittura distorte, si attivano sentimenti, decisioni e azioni conseguentemente distorte. In un suo illuminante articolo di qualche tempo fa, Annamaria Testa cita come esempio Donald Trump che, quando sceglie di chiamare “virus cinese” il Covid-19, non si limita a dare un nome diverso alla stessa cosa ma fa molto di più, compie una voluta operazione di “incorniciatura”, cioè inserisce il virus in una cornice più ampia dove l’evidenza della provenienza comporta l’inevitabile attribuzione della responsabilità. E qual è il lessico italiano usato nei giorni di emergenza sanitaria? Quello bellico. Un lessico che ha aggiunto una ulteriore cappa di paura, sospetto, ansia e incertezza nel futuro a una condizione sconosciuta e del tutto nuova sia dal punto di vista scientifico sia contemporaneamente politico-amministrativo. Il lessico militaresco e la visione bellica che esso comporta, non aiutano ad affrontare l’attuale condizione di vita da un punto di vista psicologico e cognitivo. E se non lo fanno come individui figuriamoci come società. Perché dico questo? Perché mi permette di inquadrare un altro fenomeno narrativo di cui vi sarete certamente accorti: la risposta della pubblicità delle aziende al lessico guerresco è l’ovvio risorgere dell’orgoglio nazionale. È il racconto dell’italianità che in questo momento si identifica sempre più con i più disparati saperi della nostra tradizione, e soprattutto con le sue bellezze naturalistiche e architettoniche. Le vedute mozzafiato delle nostre piazze, dei monumenti, dei borghi, delle coste e delle vette, rese se possibile ancor più affascinanti e magnifiche dal silenzio e dall’assenza di persone sono oggi al servizio dei brand più disparati. E non ci sarebbe nulla di male se ciò non generasse una falsa percezione della realtà: l’italica bellezza, che è il nostro primo patrimonio in quanto asset assoluto per l’industria del turismo cioè la prima voce del nostro bilancio nazionale in quanto rappresenta il 13% del nostro Pil (pari a un valore di oltre 230 miliardi di euro), in realtà in questo momento sta perdendo il 100% del proprio Pil. Sono convinto che in questa nuova epoca che si affaccia ai nostri occhi non dovrà esserci più spazio per storie semplicemente raccontate. Se la politica e i governi sembrano incapaci di affrontare le sfide del futuro che questo presente ci sta ponendo in maniera così esplicita e prepotente, può essere il mondo dell’impresa a indicarci la via? Possono essere le figure apicali delle aziende a promuovere un reale cambio di paradigma? La risposta è sì. Ne sono fermamente convinto. Ma serve che in esse compaia una visione innovativa ispirata dai veri valori universali. Servono persone con mente e cuore orientati ad agire-per-il-Bene dell’insieme a fare da apripista. In futuro, già nell’immediato futuro, solo chi agirà sul serio ispirato da questa vocazione profonda sarà premiato. Innoveranno davvero solo quelle aziende che muoveranno un autentico senso di Gratitudine.