“La Terra è il nostro unico azionista”

Cambiare proprietà per garantire che tutti, ma proprio tutti i profitti siano usati per proteggere il pianeta e combattere la crisi climatica. E’ la scelta di campo del noto marchio di abbigliamento Patagonia, che a questo scopo ha trasferito la proprietà del brand a due nuove entità: Patagonia Purpose Trust e Holdfast Collective. “La Terra è ora il nostro unico azionista”, hanno dichiarato il 14 settembre scorso al mondo i vertici dell’azienda.

 

Mezzo secolo di business responsabile
sylv1rob1 / Shutterstock.com

“È passato mezzo secolo da quando abbiamo iniziato il nostro esperimento di business responsabile” ha affermato Yvon Chouinard, l’ottantatreenne alpinista fondatore dell’azienda, oggi ex proprietario e attuale membro del consiglio di amministrazione. “Se vogliamo sperare in un pianeta fiorente tra altri 50 anni, è necessario che tutti noi facciamo il possibile con le risorse che abbiamo. Come uomo d’affari, nonostante non abbia mai voluto esserlo, sto facendo la mia parte. Stiamo facendo della Terra il nostro unico azionista. Sono seriamente intenzionato a salvare il pianeta”.

La dichiarazione non è affatto incongrua. Non si tratta infatti di una trovata comunicativa o di un gesto meramente simbolico, bensì di una scelta dall’impatto potenziale enorme, concreto e misurabile. Stiamo infatti parlando di un’azienda da 3 miliardi di dollari di patrimonio, capace di fatturare 1 miliardo di dollari all’anno. Basti pensare che il costo in tasse che l’operazione ha richiesto alla famiglia Chouinard, la quale ha espressamente rifiutato qualsiasi forma di riduzione o esenzione, è stato di 17,5 milioni di dollari.

 

Dai pile in plastica riciclata a “1% for the Planet”

Quanta autenticità c’è dietro a questa scelta, così impeccabilmente in linea con il sentire del momento? Di certo l’annuncio arriva in un momento di crescente attenzione nei confronti dei miliardari e delle aziende, sui quali l’opinione pubblica sta puntando il dito ritenendoli falsamente interessati a contribuire concretamente per risolvere i problemi del pianeta. Celebri le polemiche sui tanti personaggi pubblici che saltano sui loro jet privati anche per coprire tragitti molto brevi, sperperando carburante e inquinando senza remore. Tutto questo a ridosso della pubblicazione dell’intervista rilasciata da Bill Gates al Financial Times, in cui aveva lanciato l’allarme sul fatto che la tragedia della guerra in Ucraina stesse distraendo l’impegno dei governi europei nello stanziamento di aiuti umanitari verso i Paesi bisognosi.

Tuttavia, dobbiamo riconoscere che l’impegno ambientale di Patagonia è pluridecennale e conclamato. Si tratta di un business responsabile della prima ora, quando erano loro a essere “i diversi”, disallineati rispetto al pensiero imperante dei profitti a ogni costo. Il primo progetto del brand riguardò la produzione di abbigliamento utilizzando esclusivamente cotone biologico, che ha un minore impatto sull’ambiente. Poi arrivò la realizzazione dei famosi pile con plastica riciclata, 25 bottiglie usate per ciascun maglione. Nel 2001 poi il lancio dell’iniziativa 1% for the Planet, che impegnava Patagonia e le aziende aderenti a versare l’1% dei profitti annuali a iniziative ecologiche.

 

La scelta rivoluzionaria del Going Purpose

Come fare un ulteriore step verso la difesa del Pianeta? Scartata l’opzione di vendere e donare tutti i soldi alla causa ambientale, poiché non garantiva la certezza che la nuova proprietà avrebbe tenuto fede ai princìpi fondanti e continuato a lavorare con lo stesso personale, a detta di Chouinard l’alternativa rimanente era la quotazione in Borsa. Un’arena in cui però anche le società con le migliori intenzioni sono messe sotto pressione per generare profitti nel breve periodo, a discapito della responsabilità nel lungo periodo.

“A dire il vero, abbiamo capito che non c’erano opzioni valide. Così abbiamo deciso di creare la nostra. Al going public abbiamo preferito il going purpose. Invece di estrarre valore dalla Natura e trasformarlo in profitti per gli investitori, useremo la prosperità generata da Patagonia per proteggere la vera fonte di ogni ricchezza”.

È una scelta rivoluzionaria?
Sì. Senza ombra di dubbio. Concettualmente è una prospettiva di conduzione del business diametralmente opposta a quella estrattiva storica e imperante, che privatizza a vantaggio di pochi i profitti e socializza costi, perdite e danni umani, ambientali, naturali impoverendo la collettività.

È una goccia d’acqua nel deserto?
No, è una via, certamente di nicchia perché molto ambiziosa e certamente pionieristica, ma che era stata già aperta qualche tempo fa proprio nel nostro Paese. È italiana infatti l’azienda che per prima al mondo, per forma giuridica e nei fatti, è posseduta dai suoi clienti animali domestici e più in generale dalla Natura: Almo Nature, fondata a Genova nel 2000, è un’azienda da 100 milioni di fatturato e con un export del 60%.

 

Il precedente italiano: la Reintegration Economy di Almo Nature

“Quando decidemmo di fondare Almo Nature, il settore del pet food era già affollato e competitivo” scrive il Sole 24 Ore in un’intervista a Pier Giovanni Capellino, fondatore con il fratello Lorenzo di Almo Nature. “C’era spazio però, per prodotti e aziende che seguissero valori diversi dagli altri. Scegliemmo di usare solo ingredienti hfc (acronimo di human food chain), ovvero destinati al consumo umano. L’idea è molto semplice, per chiunque consideri cani e gatti compagni di vita: garantire loro la stessa qualità e affidabilità che desideriamo dal cibo che scegliamo per noi stessi”.

Viste le premesse, non dovrebbero stupire i passi successivi: nel 2018 la famiglia Capellino ha rinunciato ai dividendi e dal giugno 2019 anche al 100% della proprietà, donando con atto pubblico irreversibile (quindi per sempre) utili e proprietà dell’azienda alla Fondazione Capellino. “La finalità di questo ente non profit è semplice” racconta Pier Giovanni. “Sostenere progetti per la salvaguardia della biodiversità e per la lotta al cambiamento climatico, un modello che abbiamo chiamato Reintegration Economy perché di questo si tratta, di ridare alla Natura, al pianeta che ci permette di vivere, una parte di ciò che abbiamo tolto”.