L’implacabile simbiosi tra guerra e propaganda

“Quando un governo blocca o limita l’accesso ai servizi online nel suo stato, minando la voce e la possibilità di accedere liberamente all’informazione alla gente, ma intanto continua a usare servizi online per le proprie comunicazioni, si crea un grave squilibrio informativo” ha affermato Twitter in una nota diffusa alcuni giorni fa, annunciando la decisione di introdurre sul proprio social network misure che limiteranno l’impatto della propaganda ufficiale russa relativa alla guerra in Ucraina.

Cosicché dopo aver rimosso oltre 50 mila contenuti dal social network come parte dell’impegno per contrastare le fake news sulla guerra in Ucraina e aver bloccato contenuti che sostenevano finte raccolte fondi, dunque anche Twitter, come già fatto da Facebook e Instagram, mette al bando i media ufficiali russi Rt e Sputnik. “Non amplificheremo né raccomanderemo account governativi che appartengano a Stati che limitano l’accesso all’informazione libera e che siano coinvolti nella guerra fra stati – avvisa la società californiana – sia che Twitter in quei Paesi sia bloccato oppure no”.

 

E allora sì, propaganda, propaganda, è la risposta ad ogni tua domanda.

Mutuando il ritornello di una ironica quanto iconica hit del momento possiamo dire che quella in corso sul terreno della propaganda è una guerra combattuta all’interno di una guerra che di propaganda è fatta e della quale si nutre come un mostro autofago. E dove gli spazi offerti dai social offrono confini sempre più laschi e sempre più indefinibili. Già, la propaganda di guerra è storicamente una pratica avvezza alla distorsione dei fatti, che talvolta vengono soppressi, talvolta occultati e altre sostituiti con immagini o concetti falsi, rendendo così totalmente inefficace qualsiasi criterio empirico che ci sappia far distinguere il vero dal falso.

Fu nella propaganda di Hitler e di Stalin, per esempio, che il concetto di verità si svuotò praticamente di gran parte del suo significato, mantenendo solo quello che era stato oggettivamente definito dal partito. Nel suo capolavoro “1984”, George Orwell descrive lo scenario da incubo di una società in balia di una macchina propagandistica azionata dall’intera forza dello Stato. Immaginiamo come può ingigantirsi quello scenario oggi che la guerra è ibrida, e che nella tecnica di propaganda si sono scatenati sia ad Est sia ad Ovest.

 

Da Est a Ovest: non chiamatela “guerra”

Per farlo ci basterebbero solo un paio di esempi. Ad Est, rendendo impronunciabile la parola guerra grazie alle pene carcerarie che sono previste per chiunque la scriva o la dica nelle scuole o nelle piazze reali e virtuali, orwellianamente Putin ha di fatto cancellato dal lessico questa parola, avallando così una propaganda che racconta la guerra addirittura come un’azione per la pace. E difatti il Cremlino utilizza e incoraggia espressioni del tipo “operazione di peacekeeping, operazione speciale o militare, regime change”. Espressioni a dire il vero già sentite e usate in contesti precedenti.

Ma la stessa tecnica è usata anche ad Ovest, dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti e dalla Nato quando altrettanto orwellianamente affermano di volere la pace, ma contribuiscono alla guerra con l’invio di soldati mercenari e armi o attraverso misure sanzionatorie economiche e finanziarie definite da molti, in maniera estremamente superficiale e ipocritamente propagandistica, “armi non letali”. Come se l’aumento della fame, della povertà e delle diseguaglianze che queste sanzioni genereranno nel mondo non fossero anch’esse armi di distruzione.