Al WCEF 2019 di Helsinki: la Civiltà umana finirà nel 2050

“È alta la probabilità che a causa del cambiamento climatico la civiltà umana veda la propria fine nel 2050”. Questo è in sintesi il grido d’allarme del paper “Existential Climate – Related Security Risk: A Scenario Approach” pubblicato nello scorso maggio dal Breakthrough National Centre for Climate Restoration, un think-tank basato a Melbourne, in Australia, presentato al World Circular Economy Forum 2019 di Helsinki, il forum mondiale sull'economia circolare a cui ho partecipato alcuni giorni orsono. Scritta da David Spratt (Research Director for Breakthrough National Centre for Climate Restoration, Melbourne, e coautore di Climate Code Red: The case for emergency action) e da Ian Dunlop (membro del Club of Rome, ex Senior Executive di Royal Dutch Shell che in precedenza ha presieduto l'Australian Coal Association) con la prefazione dell’ex ammiraglio AC RAN Chris Barrie, l’analisi identifica il cambiamento climatico non solo come una reale minaccia esistenziale, ma come una minaccia a medio termine: uno scenario plausibile verso il quale l’attuale ordinaria amministrazione potrebbe portarci nell’arco dei prossimi 30 anni. Secondo gli autori, i possibili esiti estremamente gravi dovuti alle minacce alla sicurezza legate al clima, spesso sono molto più probabili di quanto convenzionalmente si sia disposti ad accettare, ma sono quasi impossibili da quantificare perché esulano dall'esperienza umana fatta in migliaia di anni. Se l’attuale trend proseguirà inalterato i sistemi e gli assetti naturali, sociali, politici e umani raggiungeranno il punto di non ritorno entro la metà del nostro secolo. Cioè domani. Se la temperatura media del nostro pianeta si alzasse di 3° Celsius rispetto all'epoca preindustriale, ipotizza l’analisi, il 35 percento della superficie della Terra e il 55 percento della popolazione mondiale, sarebbero esposti per molti giorni all’anno, a ondate di calore mortali, così roventi da non essere compatibili con la nostra sopravvivenza. In alcune zone del Pianeta i giorni con temperature letali potrebbero arrivare anche a cento in un anno. Queste temperature farebbero collassare grandi ecosistemi come l'Artico, la Foresta Amazzonica e le barriere coralline; incendi devastanti flagellerebbero l'America del Nord; la disponibilità d’acqua in tutto il mondo precipiterebbe; le precipitazioni sarebbero praticamente dimezzate in molte aree e ciò porterebbe ovviamente a una forte crisi dell'agricoltura e delle risorse alimentari. Un miliardo di persone sarebbe costretto a trasferirsi altrove per non morire. Le società per come le conosciamo oggi, verrebbero disgregate dalle conseguenti guerre per accaparrarsi le ultimissime, preziose risorse. Un quadro apocalittico al quale fatichiamo a credere. Vero? Ebbene, le probabilità che si verifichi sono molto più alte di quel che crediamo, questo perché – sostengono gli autori - i modelli climatici spesso sottovalutano eventuali effetti irreversibili. Gli scienziati per loro policy scientifica, tendono ad approssimare per difetto poiché aderiscono a norme di moderazione, obiettività e scetticismo, una lente questa che può minimizzare e quindi sottovalutare gli scenari futuri. Uno studio del 2007 ha provato che nei due decenni precedenti le previsioni scientifiche avevano costantemente sottovalutato la gravità della situazione. Questo futuro da “giudizio universale” tuttavia non è inevitabile. Questo è il messaggio che riporto in Italia, in azienda, in famiglia, rientrando da Helsinki. Ma senza un'azione drastica e immediata le nostre prospettive sono scarse. Occorre agire collettivamente con l’ausilio di una leadership forte e decisa nel governo, negli affari e nelle nostre comunità capace di garantire un futuro sostenibile per l'intera umanità. Non è un problema tecnologico o scientifico, è primariamente una questione di valori socio-politici e umanistici. Ma per avere un punto di svolta collettivo, di sistema, abbiamo prima bisogno che avvenga una presa di coscienza individuale. Un atto capace di individuare il punto di rottura, quello che nella mia Economia Sferica definisco 0.0. Un momento di ritorno all’origine attraverso il quale capovolgere il nostro schema mentale affinché diventi a sua volta l’origine del nostro nuovo modello comportamentale: non più agire per essere i migliori-DEL-mondo ma i migliori–PER-il mondo.