Quo Vadis, Silicon Valley?

Partendo dal disastroso tentativo di esordire in Borsa di WeWork, che dall’essere una delle start up di maggior valore al mondo si è ritrovata sull’orlo del fallimento, il professor Adam Arvidsson dell'università Federico II di Napoli, sottopone a un’analisi estremamente critica il modello Silicon Valley che alla luce dei fatti e dei numeri, pur dominando la scena dell’innovazione digitale non genera, o lo fa in maniera scarsa, crescita economica e utili significativi. Secondo il professore, il sistema di start up che avrebbe dovuto creare una new economy fatta da una moltitudine di business sostenibili e innovativi invece ha creato poche società gigantesche con una pessima performance economica. Anche il venture capital, nato per fornire capitali ad alto rischio all’industria dei semiconduttori negli anni settanta, si è evoluto per gestire mercati il cui futuro resta imprevedibile con il risultato eclatante di un approccio “spray and pay” in cui i pochi successi devono bilanciare i molti fallimenti. In conclusione, da un modello nato per finanziare l’espansione di nuovi mercati, la Silicon Valley si è trasformata in un sistema per l’appropriazione di guadagni finanziari ma che contemporaneamente non contribuisce alla crescita economica reale. Questo perché alla base c’è una mancanza di immaginazione. “Se il modello Silicon Valley si sta esaurendo – cito testualmente dall'articolo pubblicato sul Foglio mercoledì scorso - è soprattutto per questo motivo, manca un’idea di che tipo di mondo costruire con le tecnologie digitali, un’idea di un futuro diversa dal presente”. Una conclusione spaventosa ma al contempo illuminante. Da un lato spaventa pensare di dover ammettere che il distretto che ha guidato come un faro negli ultimi decenni l’innovazione nel mondo, non abbia ancora compreso che non esiste un’idea veramente innovativa di futuro che non rimetta l’Uomo al centro del proprio interesse quale soggetto ispiratore della propria progettualità e della propria felicità, e l’Amore, che per me – come da anni sostengo e scrivo – è in assoluto l’atto economico per eccellenza. E che per farlo, oggi siamo chiamati, tutti, nessuno escluso, a ripensare completamente l’economia, considerando la possibilità di fare tutti un passo indietro. Dall’altro lato è una conclusione illuminante e finanche ottimista perché noi, qui, abbiamo invece ben capito che per far sì che si realizzi un’evoluzione positiva, le aziende devono iniziare a occuparsi non solo del proprio vantaggio ma anche del vantaggio della comunità a cui fanno riferimento, cioè quello in cui operano e dal quale attingono le risorse umane. Abbiamo ben capito che il futuro sarà di quelle aziende che riusciranno a prendersi cura di sé stesse, dei propri clienti ma al contempo anche della collettività, e da qui possiamo muoverci non solo per immaginare nuovi modelli sociali e di business, ma anche realizzarli affinché l’Uomo, quindi il suo pensiero, le sue emozioni e le sue aspirazioni, elementi su cui far convergere una profonda riflessione, venga posto al centro di tutto.