La vocazione alla polimatia

L’altro giorno leggevo sul Sole 24 Ore un interessantissimo articolo su come debbano essere i manager del futuro secondo Waqas Ahmed, direttore artistico e curatore della collezione Khalili, corrispondente giornalistico e collaboratore di Unesco, del Commonwelth e del Vaticano. Vi leggevo che i migliori innovatori e i manager “a prova di futuro” dovranno avere una mentalità Polymath. La parola Polymath deriva dal greco e significa “che ha imparato molto”. La persona con vocazione alla polimatia è colei che tende all’eccellenza in più discipline e le sa unire per generare il cambiamento in più campi. La parola eccellere, che deriva dal latino excellĕre, composto di ex e cellĕre (spingere, muovere), significa quindi letteralmente distinguersi dagli altri per eminenti qualità. L’idea di eccellenza esprime un’aspirazione, un modello a cui tendere, una direzione verso la quale camminare. L’ex-cellere è la capacità che un uomo può manifestare, una volta che è stato formato nell’ex-ducere da un insegnante e dalla vita, di continuare a spingere fuori solo il meglio di sé, sacrificandosi per l’insieme. Non ci resta che capire che noi non siamo tanto interessanti per quello che siamo, siamo molto più interessanti per quello che possiamo diventare. Per questo il tema dell’educazione all’eccellenza oggi è centrale se vogliamo agevolare la rincorsa al nostro futuro. Per questo dovrebbe essere all’attenzione di tutti, non solo delle istituzioni. Dovremmo smettere di pensare a una formazione da era industriale e ripensarci polymath, cioè contaminati da saperi, culture, discipline diverse. È una verità disarmante che rimette nelle mani di ognuno di noi la responsabilità. Allora dico: proviamoci! Andiamo al massimo delle nostre possibilità, cercando al contempo di cadere sempre meno negli stati di identificazione in cui di volta in volta ci scopriamo. Non sempre ci riusciremo però abbiamo ben chiara la differenza tra il fare e il provarci, tra il provarci e il non fare del tutto, tra il riuscire e il non riuscire, tra il farlo per tutti e il farlo solo per soddisfare un proprio bisogno. Se continueremo a trattarci per come siamo, rimarremo così come già siamo; se ci tratteremo per quello che potremmo e dovremmo diventare, certamente diventeremo ciò che potremmo e dovremmo diventare. Capiremo così di non valere per la capacità di imporre il nostro punto di vista, le nostre credenze, le nostre convinzioni, quanto invece per la capacità di accogliere tutta quella diversità che sarà per noi ricchezza. Sarà grazie ai nostri errori, alle nostre incongruenze che con il tempo ci educheremo a credere nell’equilibrio dell’insieme a svantaggio di un’esasperata individualità. A credere nell’equità a svantaggio della furbizia, nel rispetto a svantaggio delle relazioni più opportunistiche, nella sensibilità a svantaggio della prevaricazione, nel giusto profitto a svantaggio del capitalismo vorace. Insomma, a credere nella gratitudine come via per costruire nuovi, rivoluzionari, modelli sociali, culturali e di business.