
Ieri, sul palco del Primo Maggio, è accaduto qualcosa che ci riguarda tutti. Qualcosa che molti hanno subito etichettato come “scandalo”, ma che forse possiamo vedere come un invito: siamo disposti a non restare indifferenti?
I Patagarri – giovani tra i 20 e i 31 anni – hanno avuto il coraggio di rompere il silenzio. Hanno pronunciato parole semplici eppure pesanti: “Free Free Palestine”. Lo hanno fatto sulle note di Hava Nagila, un canto ebraico di gioia, trasformandolo in un richiamo universale alla libertà. Perché proprio quella canzone? Che significato assume, oggi, quel gesto?
Non è solo una questione di Palestina o Israele. È uno specchio in cui rifletterci. Possiamo davvero festeggiare, gioire pienamente, quando sappiamo che altri vivono senza diritti, senza risorse, senza speranza? Dove inizia e dove finisce la nostra responsabilità collettiva?
Le reazioni sono arrivate puntuali, tra accuse e indignazione. Ma noi, guardiamo davvero i fatti? Conosciamo le storie, i numeri, le realtà nascoste dietro le parole? O ci accontentiamo di quello che ci viene mostrato?
Le grandi NGO internazionali – Amnesty, Oxfam e molte altre – continuano a informare con costanza e precisione. Oxfam, in particolare, di cui sono un grande sostenitore da sempre perché ne conosco personalmente le persone che in Oxfam Italia ci stanno dedicando un’intera vita, rilancia dati, appelli, testimonianze che spesso non trovano spazio nel mainstream. Ci chiediamo: perché certe voci vengono amplificate e altre messe a tacere? Chi decide ciò che possiamo sapere?
Forse è il momento di chiederci anche altro: come possiamo pretendere la pace nel mondo, se non coltiviamo prima quella dentro di noi? Non stiamo forse trascurando la dimensione più profonda, quella dell’anima, dello spirito che esiste oltre ogni confine religioso o ideologico?
Non cerchiamo risposte comode. Non rifugiamoci nel silenzio. Onoriamo la nostra voce, parlando, urlando, cantando, sospirando, purché facendola all’unisono col nostro cuore.