Parla come agisci!

Per Sigmund Freud “In principio parole e magia erano una sola cosa, e perfino oggi le parole conservano molto del loro potere magico. Attraverso le parole ognuno di noi può dare a qualcun altro la massima felicità oppure portarlo alla totale disperazione; attraverso le parole l'oratore trascina il pubblico e ne determina giudizi e decisioni. Le parole suscitano emozioni e sono il mezzo con cui generalmente influenziamo i nostri simili”. Per questa ragione da sempre ho l’abitudine di studiare i neologismi che appunto sono il segnale tangibile della traiettoria che l’umanità ha intrapreso nella strada della propria evoluzione. Un fenomeno già manifesto e più volte denunciato oltreoceano ma che a casa nostra fatichiamo a riconoscere, è quello dell’ageismo, eppure questa parola è stata coniata qualche decennio fa, nel 1969, dal gerontologo statunitense Robert N. Butler, per indicare il delinearsi di un atteggiamento di discriminazione verso individui anziani, in assonanza con le parole razzismo e sessismo. Sia la parola sia il concetto di “ageism” hanno impiegato ben trenta anni per arrivare in Europa. Prima sono stati accolti nel vocabolario francese come âgisme e ben più tardi, nel 2016, in quello italiano. Il ritardo dipende dal fatto che ne siamo immuni? Al contrario, se appunto se ne parla ancora poco, è per via del fatto che colpisce prevalentemente le donne. Come spiega la scrittrice americana Ashton Applewhite nel saggio “Il bello dell’età”, l’ageismo è uno stereotipo che fa il paio con “rottamazione”, termine che il linguaggio della politica e del giornalismo ha mutuato prelevandolo dal mondo degli oggetti, delle automobili per essere maggiormente precisi, per abbatterlo su quello delle persone. Dovremmo partire proprio dal nostro lessico per dare forma e sostanza al cambiamento di prospettiva che il tema della sostenibilità richiede. Perché corriamo il rischio di semplificarlo in un’equazione che riconduce tutto alla battaglia sulla plastica. Ma sappiamo che con sviluppo sostenibile si intende una prospettiva che preveda misure per contrastare le diseguaglianze di ogni natura oltre che per rendere i processi di governance più trasparenti. E guarda che non sto parlando di political correctness né proponendo quella sorta di conformismo linguistico che ne ha fatto fallire gli intenti pur nobili. Parlo di un impegno personale, individuale, a influire positivamente nel nostro quotidiano agire, sui modelli linguistici che acuiscono il gender gap di cui l’ageismo è solo uno dei tanti derivati. Il quadro tracciato recentemente dalla Commissione Europea ci racconta uno scenario estremamente sconfortante in quanto pur essendo il dibattito sulla questione della parità di genere molto acceso, il livello retributivo, che è uno dei principali indicatori di come e quanto le parole alla fine diventino fatti sul piano politico, sociale ed economico, denota ancora un netto divario fra maschi e femmine. Un gap che riguarda il Vecchio Continente nel suo insieme in cui l’Italia ha il ruolo da protagonista. Se l’indice medio a livello mondiale per quanto concerne l’equità di salario a parità di lavoro fra maschi e femmine è del 64,5%, in Italia siamo fermi al 51,2%, che ci vale un misero 126° posto nella classifica del World Economic Forum.